Il linguaggio della violenza non ha confini. Non è razzista, omofobo, misogino, non appartiene a una cosa sola. È violento, violento e basta. Appartiene a una mentalità che se ben radicata, magari innaffiata per anni con egocentrismo e manie di grandezza, è quasi impossibile da estirpare. Rimbalza da un argomento a un altro, da un decennio a quello successivo, cambiando forma ma mai potenza.
Non sorprende poi così tanto quindi che il tre volte campione del mondo Nelson Piquet sia finito, di nuovo, al centro di una polemica sterile e poverissima. Perché si può buttare nel cestino dell'umido la carriera di un pilota ventenne come Juri Vips, scaricato dal Red Bull Junior Team per aver usato epiteti razzisti nel corso di una diretta Twitch, ma non si può mettere a tacere un campione del mondo di Formula 1.
Neanche se, come nel caso di Piquet, la violenza non è certo una novità. Negli anni d'oro del successo del collega brasiliano Ayrton Senna, Piquet - scavato dentro da rabbia e gelosia - mise in giro la voce di una sua presunta omosessualità. Che il pensiero di far male ad un altro parlando dei suoi gusti sessuali è già, di per sé, metro di giudizio dell'uomo che è sempre stato Piquet. Voleva ferirlo nel privato, là dove Senna è sempre stato più umano. Riservatissimo, schivo, protettivo e silenzioso. Voleva farlo lanciando un seme che ancora oggi, a quasi trent'anni dalla sua morte, torna qua e là di attualità. E se la morte rimette a posto gli equilibri, cancella il concetto dell'essere "nemici" in pista e livella i sentimenti anche dei più agguerriti rivali, così non è mai stato per Piquet. Che di Senna ha continuato a dir male, a definire "un pilota piccolo" o "un pilota sporco" senza diritto di replica o voglia, da parte di chiunque altro, di replicare mai. In un'intervista si spinse a dire che, tra lui e Ayrton, il più forte doveva per forza essere lui perché "Io sono ancora vivo, cosa può esserci di meglio?".
E come puoi rispondere a una violenza così? Come replicare senza mettere sul piatto una rabbia vuota? Le frasi razziste rivolte a Lewis Hamilton che in queste ore stanno creando polemica in tutto il mondo del motorsport (e non solo) fanno questo: fanno arrabbiare e basta. Fanno porre domande a cui tanto non avremo risposta: Si tratta di ignoranza o cultura? Lo fa per far parlare di sé? Ha senso discuterne?
La risposta ce la regala, come sempre, Lewis Hamilton. Che potrebbe arrabbiarsi più di tutti, l'unico che avrebbe poi il diritto di farlo e che invece non lo fa. Che è un sette volte campione del mondo di Formula 1, che potrebbe fregarsene e andare avanti ma risponde, con intelligenza e ironia, per fare del bene agli altri più che a se stesso.
È un linguaggio che conosce bene e con cui ha dovuto fare i conti presto, nel circo di una vita passata dentro luoghi e accanto a persone che lo dipingevano come il diverso, l'outsider in un mondo di privilegiati. A quel Lewis Hamilton le parole di Nelson Piquet fanno malissimo, non a quello che oggi è diventato. Ed è per quel Lewis Hamilton che quello di oggi risponde. Per chi oggi è come era lui allora, per chi di questo linguaggio soffre come ha sofferto lui.
"Sono stato circondato da questi atteggiamenti e preso di mira per tutta la vita. C'è stato un sacco di tempo per imparare - scrive Lewis - adesso è arrivato il momento di agire". Fa capire che lui c'è, che conosce ciò che sta succedendo, che gli è già capitato mille e mille volte ancora. E il tempo per giustificare, come quello per odiare, è finito.
Vamos focar em mudar a mentalidade, scrive. Concentriamoci sul cambiamento della mentalità. Che della violenza non sappiamo che fare.