Nella Coachella Valley è l'ora del tè, anche se ci sono quasi trenta gradi all'ombra e le palme del deserto californiano sembrano più fiacche che mai: marzo è scoccato da una settimana ma il vento ha concesso una tregua solo all'ottavo giorno. Per la prima volta dall'inizio del torneo, oltretutto, il Centrale di Indian Wells è gremito. Sedicimila posti a sedere tutti occupati da persone con le maniche corte delle t-shirt risvoltate fino alle ascelle, sedicimila persone in canotta senza crema protettiva ma col sorriso. Sembrano tutti piuttosto contenti di essere lì, nel catino che domina il mastodontico complesso di tennis paradise, anche quelli che siedono al terzo anello, dove se volti le spalle vedi le montagne di San Jacinto impolverate dalla neve, se ti rimetti composto scorgi Novak Djokovic miniaturizzato dalla prospettiva che affronta Botic van de Zandschulp per un posto nei sedicesimi di finale. È a dir poco eccezionale avvistare il 24 volte campione Slam laggiù, su quel cemento verniciato di verde e blu: negli ultimi sette anni ci ha disputato appena sei partite, lui che insieme a Roger Federer è il più titolato in California con cinque successi ottenuti prima del 2016.
Così, mentre la gente sugli spalti si lascia temprare dal sole gustandosi il Grande Tennis, Djokovic sembra infastidito da tutto. Non apprezza i coni d'ombra che attraversano il campo e lo oscurano mano a mano che il pomeriggio si fonde con la sera. Fanno temporaneamente sparire la pallina dalla sua vista, costringendolo a stecche vistose e snervanti. Tira due urlacci in direzione di Andy Murray, aggrottato nel suo box, per lamentarsi del problema. Allora prova a spostare la visiera del cappellino mettendosela di sguincio, ma non funziona granché. È seccato per la quantità esorbitante di errori gratuiti che produce, si arrabbia sopratutto nell'unico sprazzo di partita che lo vede avanti nel punteggio: dopo aver perso il primo set 6-1 con la testa negli spogliatoi, strappa un doppio break all'olandese in apertura del secondo parziale (da attribuire più ad un temporaneo calo dell'avversario) ma rischia di farsi rimontare.
Chiude 6-3 in un'impennata di orgoglio e si regala un terzo set tutto da vivere dopo cinque minuti di riflessione alla toilette. Una pausa forse deleteria, perchè Nole rientra in campo e la sensibilità sulla pallina sembra tornata ai minimi storici: il miglior ribattitore della storia butta risposte in rete o fuoricampo, esita quando deve attaccare, è sempre una goccia in ritardo quando deve difendere. Sbaglia i punti importanti, che coincidono con battaglie di pittino in cui non riesce a servirsi dell'esperienza per portare a scuola l'olandese. Forse lo innervosisce anche Botic van de Zandschulp, che è impossibile da detestare agonisticamente: fa un capolavoro e quasi si imbarazza per gli applausi, fa una cappella e mantiene l'espressione bonaria di chi non è interessato al perfezionismo. Alla fine Novak Djokovic perde il terzo set 6-1 e lascia il Centrale di Indian Wells che sembra l'ombra arrugginita di se stesso.

In conferenza stampa farà le dovute congratulazioni a Botic, si lamenterà di un campo centrale dove la palla rimblaza più alta rispetto ad alcuni campi in terra rossa e ai campi secondari di Indian Wells in cui aveva messo in mostra allenamenti convincenti. In generale, si dirà ampiamente insoddisfatto del suo livello di tennis, non chiarirà fino a quando la collaborazione con Andy Murray avrà senso di esistere: Nole è contento del lavoro dell'ex rivale e vorrebbe proseguire almeno fino a Wimbledon, ma lo scozzese gli chiederà di fare un punto della situazione dopo Miami. La Florida, al momento, è l'unica certezza di Djokovic, che giocherà il Sunshine Double a sei anni di distanza dall'ultima volta.
Infine un giornalista gli inoltra la domanda chiave: "Non so da quanto tempo non perdessi al primo turno per due volte consecutive, questo in prospettiva può farti capire quanto sia stata straordinaria la carriera?". Nole si apre: "Mah, difficile pensarci adesso, di sicuro allargando gli orizzonti sì, ma gli ultimi due anni sono stati una continua lotta. Gioco un paio di ottimi tornei qua e là, per il resto è più una fatica che altro. Niente può prepararti a questi momenti, devi conviverci e cercare di tirare fuori il meglio".

Alcuni, dopo il primo turno di Indian Wells, diranno che Novak Djokovic è in piena crisi. Altri, con tanto di statistiche a supporto, sottolineeranno quanto sarebbe sbagliato sparare sentenze sul serbo misurandosi sul mese di marzo, sempre illusorio nel momento in cui si va a guardare il suo storico. Annali che riassumono un palmares senza rimpianti, bacheche stracolme di trofei e povere di spazi vuoti, che portano a chiedersi: ma perché Novak gioca ancora? L'anno scorso l'obiettivo era l'oro olimpico, conseguito. Adesso la missione può essere solo quella di provare a vincere qualche altro Slam, di regalarsi sfide di lusso contro Sinner o Alcaraz, di godersi ogni momento speso nel Tour. Eppure Djokovic a Indian Wells non si è certo divertito, anzi riparte da Palm Springs con un livello di gioco distante da quello di un tennista che può ambire alle fasi finali di un torneo di spicco. Per quanto tempo Djokovic troverà ancora gratificante il sacrificio, la fatica, la sconfitta al primo turno che nutre la fame di riscatto, il mettersi in discussione nonostante tutti i record sbaragliati? Forse la chiave per rispondere è banale: per divertirsi, deve tornare a vincere i grandi tornei. Indian Wells, in questo senso, lascia parecchi dubbi. Zone d'ombra che magari, come è già successo infinite volte, lui spazzerà via con una risposta definitiva sulla riga bianca.