Come inizio, posto che siamo ancora prima dell’inizio, non c’è davvero male: Marcell Jacobs non ha ancora cominciato a lavorare in Florida con il suo nuovo allenatore statunitense, Rana Reider, eppure in Italia ha già gran parte degli addetti ai lavori contro. In un titolo piuttosto efficace Dagospia ha definito i tecnici azzurri “incazzatissimi” per la scelta del campione olimpico dei 100 piani, prendendo come valide per tutto il movimento le parole rilasciate al Corriere della Sera da Stefano Tilli, che certo non le ha mandate a dire definendo la decisione assurda, considerandola “un enorme smacco per lo sport italiano”, prevedendo un flop sulla base del passato (“nessun atleta azzurro emigrato negli Usa ha mai combinato niente”) e ironizzando sui guai del nuovo coach.
Già, perché proprio quest’ultimo è il punto più spinoso. Passi la scelta di lasciarsi con Paolo Camossi, l’allenatore che, comunque la si veda, lo ha portato alla ribalta mondiale, perché comunque i tecnici si cambiano nella carriera di un atleta, ma la decisione di affidarsi a un allenatore straniero, e nel caso di specie proprio a Rana Reider, è un vero e proprio autogol in termini di immagine proiettata. Reider, infatti, è un tecnico di riconosciuto valore, ma con qualche ombra nel curriculum. Nonostante ben dieci atleti abbiano vinto una medaglia olimpica mentre erano nel suo gruppo di lavoro, negli ultimi hanno minato la sua credibilità la squalifica di 11 anni per doping della sprinter nigeriana Blessing Okagbare, ma anche e soprattutto per un’indagine di SafeSport – il centro finanziato dal governo americano delegato a investigare e sanzionare i casi di malcondotta sessuale nello sport statunitense – che ne lo ha messo sotto la lente per una relazione con un’atleta molto più giovane di lui, relazione nella quale risultava evidente lo squilibrio di potere. Il caso è del 2014, quando Reider lavorava per la federazione di atletica britannica, che lo allontanò a seguito della vicenda della quale, appunto, recentemente si è occupato anche SafeSport sanzionandolo per con 18 mesi di “probation”, una sorta di messa in prova che non lo esclude dalla possibilità di allenare ma lo costringe, per esempio, a frequentare corsi appositi sul modo corretto di approcciarsi con gli atleti.
Logico che la scelta di lasciare l’Italia e il suo coach italiano, e di farlo per un personaggio chiacchierato e che, per questo, si presta a un’ondata di critiche, abbia inserito Jacobs all’interno di un vortice polemico che alimenta il fuoco delle critiche che, dopo la gloria di Tokyo, non gli sono mai mancate. Critiche, accuse, anche calunnie in certi casi, in un biennio nel quale i diversi infortuni – e, a quanto pare, anche un rapporto ormai logoro con il coach: “Avverto la necessità di un cambiamento totale, di nuovi stimoli”, aveva detto Jacobs – lo hanno privato troppo spesso della possibilità di misurarsi in pista, anche se poi, recentemente, Jacobs ha mostrato di avere ancora nelle gambe tempi competitivi.
Sia come sia, dal movimento azzurro la decisione è vissuta come uno schiaffo magari non inatteso, ma comunque difficile da perdonare, al punto che ora Jacobs ha solo un modo per zittire che gli sta facendo le pulci sulla scelta: vincere. Qualsiasi altro risultato, molto probabilmente, gli sarà rinfacciato con ancora più veemenza polemica.