Ora che ha vinto il suo primo Master 1000, Jannik Sinner è tornato a essere considerato un predestinato. Tutto nella norma, se sei un giovane atleta italiano di talento come se ne sono visti pochi: da ragazzino vieni esaltato, poi alle prime difficoltà diventi uno bravo sì, ma sopravvalutato, quindi quando vinci quello che tutti pretendono da te magari non raggiungi subito il rango di fenomeno – accadrà solo se dovesse arrivare uno Slam – ma torni a essere quello che, ah sì, io l’avevo detto. Ecco, appunto: sul cemento di Toronto, dove una manciata di giorni fa aveva vinto il suo primo derby con Matteo Berrettini, l’altoatesino domenica ha battuto con un comodo 6-4 6-1 l’australiano Alex De Minaur in ottanta minuti di gioco e ha alzato al cielo il trofeo di un torneo di seconda categoria. L’ultimo era stato Fabio Fognini a Montecarlo, nel 2019. Ma Sinner non è Fognini, il quale pure è secondo solo a Panatta per titoli vinti nell’era Atp: sono nove quelli del tennista ligure e dieci quelli della leggenda romana. Solo che Panatta ormai da decenni fa parte del mito e Fognini ha una godibile carriera alle spalle, mentre Sinner con il torneo di Toronto si è portato a otto titoli. Alla soglia dei 22 anni, che festeggerà il giorno dopo Ferragosto, oggi è accreditato oggi del suo miglior piazzamento nel ranking Atp, quel sesto posto che prima di lui aveva occupato Berrettini tra gennaio e maggio 2022, dopo l’anno magico del primo Queen’s (che è un Master 500) e della finale di Wimbledon, sino alla vigilia del secondo successo sull’erba del Queen’s Club. Cosa significa questo? Che, dal punto di vista dei numeri, Sinner è destinato a diventare il miglior tennista italiano di sempre.
Ora evidentemente si alzerà la soglia. L’ultimo slam italiano in singolare risale al 1976 e lo firmò Panatta, che appunto in quell’estate salì sino al quarto posto nel ranking: trattandosi di era Atp, questi sono i traguardi che Sinner dovrà ora eguagliare o superare, dal momento che un qualsiasi confronto con quello che è considerato il miglior italiano di sempre, Nicola Pietrangeli, per motivi di coerenza statistica è piuttosto arduo. Piuttosto, da un certo punto di vista, questo dover mettersi alle spalle le icone precedenti è una prospettiva che lo accompagna sin dal debutto e che ha finito per essere sinora sufficientemente deleteria, più che altro per la pressione mediatica, quella stessa che lo ha normalizzato dopo averlo portato in palmo di mano da teenager. Conta tuttavia anche guardare al contesto. Sinner non è un fenomeno alla Federer, Nadal o Djokovic, e del resto l’era dei primi due è terminata e di quella del serbo si legge ora la scadenza, mentre Medvedev non ha la loro pasta. Non gli si può chiedere di diventare un dominatore e forse nemmeno di segnare un’epoca a livello internazionale, ma la possibilità di far parte del giro di coloro che, nei prossimi 8-10 anni, si spartiranno gli Slam ormai privati dei cannibali, c’è tutta. E, se è vero che non pare avere le qualità di Alcaraz, che primo è e primo resterà a lungo (ma i testa a testa tra i due oggi vedono la parità: 3 a 3), è vero altresì che tra i Ruud, i Rune, gli Tsitsipas e coloro che usciranno nel prossimo triennio c’è posto anche per Sinner. E non è un posto di seconda fila.