Jorge Lorenzo è intervenuto a "Búscate la vida" - cercati la vita - un podcast piuttosto famoso in Spagna, in cui al cospetto di una coppia di conduttori (due uomini d'affari multimilionari) si presentano personaggi famosi per parlare di finanza, imprenditoria e molti altri temi della vita. La chiacchierata in compagnia del 99, in questo caso, è bella ed interessante, perché Jorge affronta senza troppi giri di parole i temi nodali della sua storia: gli albori e gli esordi in pista, i motivi del ritiro, l'essenza di un mestiere - quello del pilota di MotoGP - con i relativi lati oscuri e delicati. Il Porfuera parte da lontanissimo, raccontando qualcosa di inedito: " La mia famiglia non aveva soldi e con quattro ferri, un motore e due ruote mi costruirono la mia prima moto. Non ricordo la prima gara che ho corso, avevo tre anni. Mi hanno detto che non potevo correvo senza patente, perché si può correre legalmente solo dopo cinque anni. Indossavo la tuta che mia nonna mi aveva realizzato a mano, all'organizzatore dispiaceva escludermi e mi ha lasciato correre. Il motociclismo non è uno sport che ha un metodo di allenamento; ognuno ha elaborato un po' il proprio metodo. Mio padre, che è una persona dal carattere particolare ma molto intelligente, ha guardato i metodi degli allenatori di altre discipline sportive per applicarli a me in moto. Penso che sia stato lui l’inventore del mio metodo. 'Se guidi una 500 come questa minimoto, sarai campione del mondo', mi diceva sempre".
Poi il salto è pindarico, in un attimo Jorge passa dalle primissime gare dell'infanzia alle ultime, quando di anni ne aveva 32 e le ripetute cadute (in particolare una scivolata ad alta velocità alla curva 8 di Assen), sommate ad una confidenza con la Honda che non arrivava mai, lo convinsero a lasciare la MotoGP da cinque volte campione del mondo. Il contrasto fa effetto: "Gli infortuni, l’aver subito dolore, sono esperienze e pesi che metti nello zaino. Ángel Nieto ha detto che un giorno è arrivato in griglia di partenza e ha pensato 'che diavolo ci faccio qui?'. Per me la svolta è arrivata con il mio ultimo grave infortunio, in Olanda nel 2019. Nel venerdì di Assen sono caduto in una curva veloce a sinistra. Era a una velocità tale che, mentre strisciavo sulla schiena sulla ghiaia, cominciai a girare. E dai colpi alla nuca sul terreno mi si sono schiacciate due vertebre. Quando ho finito di rotolare, subito ho sentito che c'era qualcosa che non andava nella mia schiena. E in quei due secondi, la mia testa è andata a pensare 'non voglio continuare a fare così, voglio ritirarmi'. È successo tutto in due secondi". Infine, quando gli viene domandato dei colleghi che in pista hanno perso la vita, Jorge risponde tirando fuori l'essenza dell'impostazione mentale del pilota, che per autodifesa - per proteggersi - deve allontanare i pensieri più cupi: "Tutti noi piloti siamo stati vicini al fatto che ci accadesse qualcosa di brutto; ad esempio restare su una sedia a rotelle, oppure morire in pista. Ho vissuto alcuni momenti in cui ho schivato queste eventualità. Non ho visto morire Simoncelli perché in Malesia non gareggiavo, dato che mi ero fratturato la falange di un dito a Phillip Island, la settimana prima. Nel 2010 avevo visto morire Tomizawa in Moto2 a Misano. Nel 2016 al Montmeló Luis Salom. Quindi è qualcosa a cui non pensiamo costantemente, perché altrimenti sarebbe impossibile andare veloce, ma tu ne sei consapevole. E dai per scontato che possa succedere a te”.