A Interlagos Max Verstappen ha negli occhi la rabbia dei suoi primi anni in Formula 1. Nel ring delle interviste, dopo le qualifiche pazze di una domenica mattina sotto la pioggia, è furioso e incredulo: “Non so cosa faremo in gara” ripete, sapendo che una partenza dal fondo della griglia, soprattutto in condizioni incerte come quelle che per tutto il weekend hanno tormentato la pista brasiliana, può voler dire qualsiasi cosa. Potrebbe significare finire fuori dalla zona punti con Lando Norris, al via dalla pole position, a caccia del bottino completo per accorciare drasticamente la distanza nel campionato piloti. Potrebbe significare incidenti in curva uno, traffico, errori. Max ce l’ha con tutti: con la sua squadra, che lo ha messo nuovamente in difficoltà, con la FIA, per le decisioni prese che da settimane lo penalizzano, con i suoi avversari e con sé stesso. Se ne va alzando le spalle: ci sarà da limitare i danni, da soffrire ancora. È una seconda parte dell’anno di agonia pura per lui che non vince da dieci gare, costretto a conservare ogni punto guadagnato nei mesi di dominio Red Bull per garantirsi a fine anno la vittoria del titolo piloti, strappandolo a una McLaren ancora immatura.
Ma Max Verstappen non sa che cosa significhi limitare i danni. Si veste con calma, poche ore dopo la rabbia delle qualifiche, e guarda il cielo grigio che si affaccia sul tracciato: potrebbe piovere, diluviare, tornare sereno. Sarà una gara pazza, una di quelle in cui nessuna regola conta. Indossa il casco e si schiera, sicuro come un veterano al suo decimo anno in Formula 1, uno che sulle dita della propria mano conta già tre titoli mondiali vinti, ma lo fa con la rabbia del rookie che è stato, senza paura e senza pressioni, lontano dal timore di chi si ritrova a sfidare i grandi. Ha dimostrato nel 2016 che cosa può fare lì, a Interlagos, su una pista che per un purista come lui è uno spettacolo di curve e occasioni. Le condizioni sono difficili, la pista è bagnata e i piloti montano le intermedie, superare al via non è semplice ma Max è a caccia: uno, due, tre. In meno di due giri supera sette piloti mentre davanti l’uomo da battere, Lando Norris, perde ancora una volta la posizione al via. Parlerà di “fortuna” Lando Norris, commentando l’impresa di Max Verstappen. Perché l’arrivo della safety car prima e della bandiera rossa poi lo ha aiutato, ma parlare di fortuna quando si ha davanti agli occhi un’impresa monumentale definisce chi sminuisce il successo, non chi lo ha realizzato.
E Max ride e grida, come non faceva da tempo, salta sui suoi uomini per festeggiare, chiacchiera nel retro podio, bacia la sua fidanzata Kelly, in lacrime nella sua gara di casa, e abbraccia Chris Horner. Del giudizio degli altri non gli è mai importato un granché e lì, davanti a una vittoria che sa di aver meritato, non potrebbe importargli di meno. Perché a Interlagos ha ipotecato il suo quarto titolo mondiale e perché lo ha fatto con un Gran Premio che verrà ricordato tra vent’anni come uno dei più incredibili di sempre. Perché ad applaudirlo sono Lewis Hamilton e Fernando Alonso, che nella cavalcata di Max rivedono l’ombra di grandi imprese del passato. Non è fortuna, quella di Verstappen. Sono sorpassi a schiena dritta, intuizioni vincenti e sono 17 giri veloci in gara a segnare il tempo del suo successo, a dettare il ritmo di chi non si accontenta di limitare i danni, di rosicchiare punti. È la rabbia dei suoi occhi, quella di una furia mondiale, di un talento generazionale che scalpita come nei suoi primi giorni in Formula 1. È un corsa verso la leggenda, la fortuna è un’altra cosa.