Novembre. Il primo freddo, un parabrezza da sbrinare, l’inverno che attanaglia le membra. In tv ci sono i Mondiali, quelli sì, al caldo. Stadi scoperti con aria condizionata, mentre le prime pagine dei giornali titolano sulla crisi energetica. Stadi enormi che tra un mese spariranno, come un miraggio nel deserto dopo uno sprazzo di lucidità. Stadi tirati su in fretta e furia con un container sopra l’altro, i seggiolini colorati a mascherare le pozze di sangue di chi li ha costruiti. Meritano attenzione i giocatori della Germania che si tappano la bocca, il ministro degli interni Nancy Faeser con la fascia arcobaleno di fianco a colui che l’ha bandita. Merita ammirazione l’undici titolare dell’Iran. Tifiamo per loro, restiamo in silenzio con loro. Poi cambiamo canale.
L’Italia che gioca i Mondiali è quella del tennis e ha già compiuto un’impresa. Perché sarà pur vero che la Coppa Davis è cambiata, che le partite non sono più al meglio dei cinque set ma dei tre. Che gli scontri ad eliminazione diretta non vengono spalmati nell’arco di un weekend ma si giocano in mezza giornata. Che tra casa e trasferta non c’è più distinzione; le fasi finali si disputano tutte sullo stesso campo neutro. Eppure la Coppa Davis resta indiscutibilmente, per eccellenza, il Mondiale a squadre del Grande Tennis. L’insalatiera d’argento contiene al suo interno oltre cent’anni di storia di questo sport. Dalla Davis ci sono passati tutti, tutti i campioni della racchetta hanno desiderato alzare, almeno una volta, quella coppa al cielo. Fred Perry, Rod Laver, Arthur Ashe, Stan Smith, Bjorn Borg, Adriano Panatta, John McEnroe, Boris Becker, Andre Agassi, Pete Sampras, Rafael Nadal, Novak Djokovic, Roger Federer. Nessuno, insieme alle rispettive nazionali, ha mancato l’iscrizione all’albo d’oro.
L’Italia, dicevamo, partiva sfavorita. Tutt’ora siamo sfavoriti. Ci mancano le nostre punte di diamante, Berrettini e Sinner. Acciaccati, stanchi, costretti a dare forfait all’ultimo. La forza di questa nazionale però è il gruppo. Suona come frase fatta, una di quelle cose che si dicono tanto per riempire l’aria di parole. Fa ancora più strano adoperarla per uno sport individuale, dove il tennista professionista è imprenditore di sé stesso e non deve rendere conto ad altri delle sue scelte. La Coppa Davis invece è l’unico momento della stagione in cui il tennista deve rendere conto ad un Paese intero. Non può permettersi di lasciare scivolare una partita difficile per sua convenienza, ma è costretto a cercare il limite in ogni punto, in qualsiasi situazione di vantaggio e svantaggio. Filippo Volandri, capitano della nazionale azzurra, non a caso ha gli occhi colmi di orgoglio. Perché l’Italia del tennis è compatta, unita, maledettamente affiatata. La convinzione è figlia dell’atteggiamento di Fabio Fognini; mai come in questi giorni disposto a limare i suoi nervosismi pur di non danneggiare il gruppo. Mai così esplicitamente coinvolto, centrato, in campo e fuori. Anzi sembra proprio essere lui, Fabio, il collante. Festeggia abbracciando tutto lo staff azzurro e sollevando in aria Simone Bolelli, meravigliosa spalla nel doppio. Simone è lucido, freddo, risoluto come il suo rovescio ad una mano in risposta. A Berrettini e Sinner, usciti anticipatamente di scena come Nesta e De Rossi nel Mondiale 2006, sono subentrati Sonego e Musetti. Lorenzo e Lorenzo. Torino e Carrara. Grinta e fantasia. Così, di gruppo, l’Italia ha battuto ai quarti di finale gli Stati Uniti, 31 volte campioni in Davis. Gli americani che giocano di potenza al servizio e in risposta, e potenzialmente letali sulla superficie veloce di Malaga, sono stati sconfitti da Fognini, Bolelli, Sonego e Musetti. La squadra data per vinta già in partenza.
Ora ci giochiamo la semifinale con il Canada, consapevoli che l’impresa è stata compiuta, che non abbiamo niente da perdere. A Malaga il giudice di sedia è un tedesco obbligato a comunicare il punteggio in spagnolo. “Ma dai. Dice quarénda-trénda, me pare Malgioglio. Levategli il microfono che teniamo noi i punti”, commenta Adriano Panatta su Rai Sport in una sfida a distanza con l’amico Paolo Bertolucci, seconda voce del tennis per Sky. Loro, 46 anni fa, giocavano il doppio finale con la maglietta rossa a Santiago, in Cile, sotto gli occhi di Pinochet. Conquistavano, insieme a Corrado Barazzutti e Tonino Zugarelli, la prima ed unica Coppa Davis per l’Italia. Quell’Italia che si divise per la trasferta della nazionale di tennis nel regime dittatoriale, facendo passare sottotraccia un capolavoro sportivo, politico, diplomatico. Ma oggi come allora l’Italia della racchetta, l’Italia che gioca il Mondiale, merita. Attenzioni, supporto, tifo, ammirazione. Saliamo sul carro, facciamolo adesso, indipendentemente dal risultato. Siamo sfavoriti. Come sempre, d’altra parte, nei Mondiali.