La prima cosa che noti di Maddi è il largo sorriso che si porta in giro, sguaiato e aperto. Poi gli occhi grandi color nocciola e i capelli biondi tenuti con cura, limite ultimo del suo metro e settanta d’altezza, forse con un po’ di tacco. Nel mezzo il fisico di una che, verosimilmente, passa tre giorni a settimana in palestra. Maddi la noti subito quando vai alle gare: ti chiedi cosa ci faccia lì, nelle sale stampa della MotoGP tra fotografi e giornalisti dove ha le stesse probabilità di passare inosservata di una giraffa in piscina. Poi un po’ alla volta capisci che non solo è singolare come una giraffa in piscina, è anche rara come una giraffa bravissima a nuotare, perfettamente a suo agio.
Maddi è australiana ma ha vissuto per anni in Italia, mi saluta sempre con uno squillante “’A Dandiii!”, perché dice che le ricordo Alessandro Roja in Romanzo Criminale. Maddi gira il mondo con suo marito, Simon Patterson, uno dei giornalisti più capaci di questo ambiente, uno che lo trovi sempre-in-circuito, anche se per i test a Sepang o un’assurda trasferta in luoghi difficili persino da pronunciare. La pelle su mani, braccia e gambe di Maddi ricordano le venature del marmo, sono i segni del fuoco provocati da un’incidente che l’ha quasi uccisa. Una lunga tortura fisica e di spirito che l’ha spinta prima a morire e poi a rinascere, con una grossa torta e il numero uno sopra.
Nel 2024 Maddi Patterson, 28 anni, ha lanciato il team Sekhmet Racing, squadra impegnata nel primo campionato mondiale femminile organizzato nella storia della FIM, il WorldWCR. Per celebrare questo momento ci siamo seduti a un tavolino e ne è uscita un'intervista lunga, piena, sincera e faticosissima. Risentire le parole di Maddi per metterle in pagina è sentire una mano gelida che rimesta tra i tuoi polmoni, nel tuo stomaco. Ed è stato un privilegio enorme, un regalo prezioso.
Raccontami la storia dall’inizio. Vieni dall’Australia, hai fatto l’ombrellina, hai il corpo bruciato. Come sei finita qui?
“Ho cominciato a lavorare nelle corse dieci anni fa, il mio primo lavoro è stato la Promotional Model, quindi tenevo l’ombrello, l'ho fatto sia in Superbike che in MotoGP. È cominciato tutto perché al mio fidanzato dell’epoca piaceva la MotoGP, aveva degli amici nell'ambiente e siamo andati a vedere una gara assieme ospiti di uno sponsor. Ho capito quasi subito che era la vita che volevo fare ma non avevo amici né esperienza, così quando mi hanno chiesto se fossi stata disposta a fare da ombrellina ho detto di sì. A quel punto ho iniziato a costruirmi delle relazioni, mi proponevo per lavorare in hospitality, negli uffici stampa. Sostanzialmente venivo alle gare in Europa chiedendo dei permessi dal mio vero lavoro, prendevo cinque giorni alla volta spendendo buona parte dei miei soldi per venire ai GP. Un po’ alla volta, un anno alla volta, ho costruito più relazioni e cominciato a fare lavori diversi: social media, marketing… poi cominciato a farlo anche in Australia, nella ASBK. L’inizio è stato un po’ così, l’ho voluto molto”.
Così hai trovato qualcosa con cui riempire la tua vita, anche se lavorare nel paddock non ti dava da vivere e, al contrario, ti serviva del denaro per farlo. Quand'è che è cambiato tutto?
“Tutto è cambiato nel 2020. È stato il peggior anno della mia vita per una lunga serie di ragioni. Lavoravo come Sales and Marketing Executive per una grossa azienda ed era un buon lavoro, ricoprivo un’ottima posizione e spingevo come una matta, poi con le ferie venivo alle gare in Europa. A quel punto è arrivato il Covid. Ho perso il lavoro perché quella per cui lavoravo era una compagnia che si occupava di eventi e non ce ne sono stati più per anni, l’Australia è stata molto stringente con le sue politiche durante la pandemia. Mi sentivo isolata, abbattuta. A quel punto, nel novembre del 2020, sono stata coinvolta in un’incidente. Un’esplosione che ha bruciato qualcosa come il sessanta percento del mio corpo”.
Puoi raccontarmelo?
«Certo. Ero da sola nel Sud dell’Australia, che non è da dove vengo, e sono rimasta in ospedale per tre mesi. Ho dovuto imparare a camminare di nuovo, ho ricevuto degli innesti di pelle, è stato un periodo orribile della mia vita. Quando ho lasciato l’ospedale il mondo stava ripartendo, così ho riavuto il mio vecchio lavoro e sono tornata a farlo a tempo pieno. Però dopo tre mesi di ospedale camminavo a malapena, andavo a fare riabilitazione tre volte a settimana. Quella ero io che cercavo di rimettere in sesto la mia vita. Suona tutto forte, incredibile e d’ispirazione, ma la realtà è che è stata solo durissima. Mi guardo indietro e rimpiango di non aver preso un anno di pausa, mi dico che avrei dovuto piangere di più, pensare. Mi sarebbe piaciuto concedermi di essere depressa. Eppure non ce l’ho fatta perché non è mai stato il mio modo di fare le cose. Così è successo che a fine 2021 ho avuto un crollo. Ho dovuto riconoscere il fatto che il mio corpo era cambiato, la mia vita era cambiata, la mia opinione sul mondo era cambiata, vedevo tutto in modo diverso. Avevo questa relazione a distanza fatta di continui tira e molla e mi ero quasi dimenticata del tutto del motorsport».
«Prima dell’incidente apprezzavo me stessa soprattutto per il mio aspetto. Oggi, ed è molto strano da dire, ripenso all’incidente e sono veramente grata di averlo avuto. È dura da dire perché è stato fottutamente orribile, ma ne sono anche felice perché ho capito di essere una persona molto intelligente e che no, non mi vergogno a dirlo. Penso che ognuno di noi ad un certo punto finisca per conoscere sé stesso, io ho solo dovuto farlo molto in fretta. Sta di fatto che a fine 2021 ho preso un biglietto per l’Irlanda, per il 12 aprile, e ho detto al mio fidanzato di venirmi a prendere all’aeroporto. Sono tornata in Europa e mi sono proposta per qualsiasi lavoro possibile nel paddock. Ho avuto un’offerta da RNF ma non volevo fare l’ufficio stampa e sono stata abbastanza fortunata da ricevere un’offerta da un’editore e ho rimesso i piedi nel paddock: gli ultimi tre anni qui sono stati scoprire un mondo, ho incontrato molta gente, l'ho conosciuta».
Mi hai quasi fatto piangere. Come sei arrivata a questo livello di percezione di te stessa? Hai fatto uso di droghe, hai intrapreso un percorso con uno psicologo? Insomma, sono processi mentali che la gente normale insegue per una vita senza arrivarci. Tutta questa saggezza... Ti sei fatta un funerale?
«Parlo della mia storia in un modo molto positivo e l’ho sempre fatto, ma la realtà è che è stato orribile. Voglio dire, sono uscita dall’ospedale che c’era ancora il Covid, quindi ero da sola. Indossavo una tuta compressiva e dovevo coprirmi la faccia con un balaclava, non avevo capelli, la mia pelle era bruciata e avevo sviluppato una dipendenza dai farmaci. Prendevo questa droga chiamata Lyrica, che è un neurological blocker, quindi inibisce la sensazione di bruciore. Al tempo mi guardavo allo specchio e piangevo, mi odiavo. Odiavo il mio aspetto, odiavo tutto. Chiunque si sarebbe sentito così, io credo che mi sia successo perché fino a quel giorno avevo vissuto con l’idea di essere una bella ragazza. Comunque. Questa sostanza è anche nota per produrre stati depressivi, così per contrastarla ho cominciato a prendere anche antidepressivi. Ero depressa, bevevo molto, fumavo continuamente e ho sviluppato questa dipendenza per i farmaci al punto che in quel periodo avrò preso venti, venticinque chili. Anche perché non potevo fare esercizi, riuscivo a malapena a muovermi. È stata un’agonia. L’apice è stato nell’ottobre 2021, 11 mesi dopo l’incidente. Sono ancora nella mia tuta compressiva, mi stanno accadendo tutte queste cose e decido di uccidermi».
Maddi parla con grande chiarezza. Non c’è bisogno di interromperla, di chiederle qualcosa, di incoraggiarla, di farle aggiungere un dettaglio o darle un’opinione. È, nella sua testa, tutto perfettamente chiaro.
“Di quel giorno ricordo questo caldo spaventoso, tipicamente australiano. Stavo sudando tantissimo, anche per colpa dell’incidente, così ad un certo punot decido di farmi un bagno freddo. Lì, nell’acqua, mi sono detta: ‘Sai che c'è? adesso mi ammazzo’. Esco dalla vasca, mi vesto, mi metto i pantaloni, la maglia e intanto penso a come farlo. Mi butto contro un autobus o mi lancio nel vuoto? Penso che c’è una scogliera che affaccia sul mare e decido di buttarmi da lì, per essere lavata via dalle onde. Nessuno mi sarebbe venuto a cercare, a riprendere. Mi metto una scarpa, la annodo. E poi mi infilo l’altra e annodo anche quella. Stavo prendendo le chiavi per chiudere la porta quando ho visto il mio telefono e, per qualche ragione che ancora non so spigarmi, l’ho preso e chiamato un’ambulanza, dicendo loro che stavo andando ad uccidermi: ‘Potete venire a prendermi? I’m going to kill myself’. Non so cosa sia successo, cosa mi abbia fermato o come mi sia venuto in mente di fare quella telefonata”.
Ti sei vista da fuori, come se stessi prendendo decisioni per un’altra persona?
“Sì, sì. È stato interessante. Ma stavo smettendo con i medicinali perché mi ero rassegnata a sentire il dolore. Era come se volessi causarmi del dolore. Quando è arrivata l’ambulanza mi hanno trovato calma, risoluta. Mi hanno chiesto se fosse tutto a posto e io ‘Sì, certo, ma non sono in grado di rimanere da sola, posso stare con voi?’. Avevo bisogno di aiuto, così mi portarono all’ospedale e alcuni dei dottori che mi avevano avuto in cura vennero a trovarmi, spiegandomi che ridurre i dosaggi dei medicinali mi aveva reso depressa. Devi avere una grande forza di volontà per capire che molti dei tuoi pensieri non sono genuini ma che si tratta, di fatto, dell’interazione del tuo cervello con le sostanze chimiche che hai assunto. Sono stata tre giorni in psichiatria e lì ho avuto delle psicosi: prendevo a pugni i muri, facevo fatica a respirare. È stato orribile. Al terzo giorno ho chiamato mia madre e le ho chiesto di venire a prendermi. Non le ho dovuto dire niente, sapeva tutto, non abbiamo dovuto parlarne. È stato strano, eppure da lì le cose hanno cominciato ad andare meglio. Tre settimane dopo è stato l’anniversario del mio incidente e con i miei amici abbiamo fatto una festa, un nuovo compleanno: una grossa torta col numero uno sopra, un palloncino gigante… quello è stato anche il giorno in cui sono uscita dalla mia tuta compressiva, avrei dovuto tenerla per 18 mesi invece ne sono bastati 12. Poco più tardi ho mollato il mio lavoro perché era troppo stressante, cercavo di essere la me stessa di prima dell’incidente ma la realtà è che non sarei più stata quella persona. Appena sono riuscita ad ammetterlo è cambiato tutto”.
Ti sei quasi uccisa e poi sei rinata, con il compleanno e tutto. È così che hai ripreso a vivere?
«Ho cominciato a lavorare come receptionist, un lavoro semplicissimo: tutto quello che dovevo fare era rispondere al telefono e sorridere ai clienti. Ero pagata bene, ero contenta, la gente era felice di vedermi e di chiacchierare. Ho cominciato a uscire di nuovo, ad andare a ballare senza la paura o l’imbarazzo di mettere vestiti che mostrassero le mie cicatrici. Ho cominciato a sentirmi meglio e quando la gente chiedeva cosa mi fosse successo io rispondevo con qualche battuta: ‘Oh, I was on fire once’. Ora ci scherzo parecchio. Non so come sia successo tutto questo, so che uscivo con i miei amici e magari incontravo qualcuno che mi diceva che ero bellissima, chiedevano se avessi il fidanzato. Io sono una persona nella mia interezza e un paio di cicatrici non possono cambiare questa cosa. Sai, la gente si prende il tempo che serve per conoscere le persone. L’età è un numero. Il modo in cui appari è soltanto il modo in cui appari. Una cicatrice, roba così. Non importa, normalmente alla gente non importa. Quando ho capito questa cosa sono stata meglio, ho cominciato a fare volontariato negli ospedali, magari facendo cose che mi sarebbero state utili quando in ospedale c’ero io. Ora sono fiera di tutta questa roba, non mi imbarazza. Sai, penso che la gente spesso viva ancorata a problemi piccoli, eppure alla fine della storia non conta quasi niente, questo periodo mi hai aiutata a comprendere molto meglio le emozioni: ora so che tu puoi avere un problema grande o piccolo ma, di fatto, un problema rimane».
The Racing: la MotoGP, il matrimonio, il paddock
Torniamo indietro: perché le corse? L’idea che mi sono fatto personalmente è che questo paddock metta assieme l’alto e il basso. È come una squadra di rugby, tutti possono avere un loro posto qui: il meccanico, lo sportivo, quello bravo a scuola...
«Penso che all’inizio per me venire alle corse fosse un modo di fuggire. Ero sempre in un luogo diverso, poi sai: condividi questi secret jokes con la gente del paddock ed è divertente, oltre al fatto che non stai mai fermo e questo mi piace, si incontra bene con la mia personalità. Adoro essere impegnata. Adesso, avendo fatto decine di esperienze ed essendo stata in posti incredibili come l’Isola di Man, con tutta la gente che ho conosciuto… non credo che riuscirei mai a fare qualcosa di diverso. Se mi chiedessero di lavorare per 120.000 euro l’anno in qualche agenzia rifiuterei, quello è un lavoro che non ti riempie. E persino nelle brutte, terribili giornate, se sono in un luogo come il TT non c’è altro posto al mondo in cui vorrei essere. Il paddock il luogo più sicuro al mondo per me: vedo persone pronti ad aiutarmi, sempre. Siamo tutti un po’ pazzi qui dentro, devi esserlo per starci. Andiamo alle corse per vivere, capito? Di lavoro! Ma non è un vero lavoro, è una figata. Per il mondo può non essere importante, però a me importa».
Alle corse vieni con Simon (Patterson, ndr.), tuo marito. Non dev’essere facile portare avanti una vita di coppia così, in cui si passa praticamente ogni minuto assieme.
«Le cose stanno cambiando. All’inizio lavoravamo per editori diversi, abbiamo vissuto in Australia e ci siamo trovati in lunghi tira e molla, periodi duri. All’inizio è stato veramente difficile per me separarmi dall’ombra di mio marito. Lui è fottutamente bravo a fare il giornalista, non c’è dubbio su questo. È bravo in quello che fa. Magari però qualcuno veniva a lamentarsi con me di Simon e io rispondevo ‘Beh, hai il suo numero? Puoi chiamarlo’. Volevo essere qualcuno, non venire considerata una sorta di segretaria. Questa probabilmente è stata la molla che mi ha fatto scattare la voglia di aprire il team (ride, ndr). Così se vuoi parlarmi di Sekhmet Racing bene, accomodati. Se sei qui per parlarmi di mio marito ti puoi levare dalle palle. Magari per questi vecchi signori è un po’ una cosa culturale, una cosa old school, ma non sono la sua segretaria. Per il resto facciamo una vita meravigliosa, un giorno al mare e l’altro in cima alla montagna, stiamo nel van, apriamo il tavolino e lavoriamo da lì… L’abbiamo scelto ed è fantastico».
Sekhmet: una dea feroce che si calma solo con l'alcol
Sekhmet Racing. Cosa stai facendo, come è successo?
«Ero, ancora una volta, all’Isola di Man per il TT. Sono con dei miei amici piloti ma il loro team non è pronto, non c’è la moto. Sai, il TT è quel luogo in cui ti prepari tutto, ogni cosa viene controllata due volte. E questi ragazzi scoprono che la moto non è a posto, il proprietario della squadra non ha una contabilità e tutto è fatto male, malissimo. Questa roba mi haf fatto impazzire, non ci ho visto più, ho dato di matto. Domenica, dopo la gara, bevendo un caffé con un’amica e ripensando a quella storia, le ho detto che avrei dovuto aprire un team: se ce l’ha fatta quel coglione, posso farlo anche io e posso farlo meglio. Così, questa mia amica molto spirituale mi dice che le ricordo la dea Sekhmet, io alzo le spalle e le dico whatever - se lo dici tu. Lei continua: c’è questa dea egizia, nata dal fuoco, feroce. È chiassosa, rabbiosa, ma è anche calma e protegge i suoi amici, la sua priorità numero uno è aiutare chi le vuole bene. Così abbiamo googolato Sekhmet ed è venuto fuori che l’unico modo per calmarla è stato darle da bere birra finché non si è ubriacata di brutto. (Maddi ride, ndr.) E allora sì cazzo, eccomi, sono io! Così, per scherzo, ho detto che se mai avessi avuto un team l’avrei chiamato Sekhmet. Incredibilmente un paio di settimane più tardi la FIM ha annunciato il WorldWCR, Women's World Championship”.
E hai capito subito che poteva essere la tua strada.
“Non subito eh, però ad un certo punto mi è sembrato chiaro. Non è difficile. Posso farcela, conosco le persone giuste, so come si fanno le cose, chi chiamare. Ho telefonato a chiunque nel paddock chiedendo consigli su come aprire un team. Sapevo come gestire le vendite, gli sponsor… l’ho fatto per una vita, ma un team è un prodotto diverso. Dopo un po’ di telefonate trovo il mio business partner, l’ex Head of Sponsorship and Marketing della Suzuki nell’epoca di Chris Vermeulen. Ha gestito il marketing di Porsche, McLaren F1. Era praticamente in pensione, ma gli ho raccontato la mia storia e quello che volevo fare: mi ha detto sì. A quel punto abbiamo speso i sei mesi successivi a lavorare».
Quello è stato il punto di non ritorno?
«Esatto. Quello e quando abbiamo portato a casa il nostro primo investitore, quel giorno abbiamo realizzato che lo stavamo facendo davvero. C’è questo modo molto australiano di dire per spiegare che fai sul serio, ed è Non siamo qui a scopare i ragni. La gente crede nel nostro progetto, sappiamo quello che dobbiamo fare e abbiamo grosse idee. Dieci anni fa reggevo un ombrello in griglia e non avrei mai potuto immaginare che sarei finita qui, a vivere il mio sogno. Conosci tutti, sorridi, condividi te stesso, strette di mano, cene, aperitivi, strette di mano, relazioni, strette di mano. Ed eccoci qui, lo stiamo facendo».
Mi hai raccontato che Carlo Merlini, Massimo Rivola e tanti altri sono stati molto disponibili con te quando è stato il momento di chiedere un consiglio.
«Non è un segreto che ho delle buone relazioni con la gente nel paddock, penso anche che alla gente piaccia vedere la passione. A loro piace vedere qualcuno che insegue i propri sogni. Boselli, Rivola… tutta gente a cui posso chiedere un consiglio, un parere. Massimo (Rivola, ndr.) mi ha accolta nel suo ufficio a Noale e abbiamo parlato per due ore di come si gestisce una squadra. Addirittura Carlo Pernat mi ha dato una mano. A Carlo Merlini ho chiesto se stessi facendo le cose nel modo giusto, come le avrebbe fatto lui… non ti dicono mai troppo perché sono sempre decisioni che devi prendere da solo, però mi hanno aiutato moltissimo. Non penso che lo facciano solo con me, penso lo farebbero con chiunque ci provi davvero. Alle persone piace vedere i propri affetti riuscire in quello che fanno. Io sono molto fiera di queste relazioni e non so cosa ho fatto per valere il tempo di questi signori, eppure mi incoraggiano sempre».
Torniamo al World WCR: la prima gara si corre a Misano, in concomitanza con la Superbike.
«Manca pochissimo e devo ancora stampare della roba! Senti, la prima gara sarà dura. Non abbiamo testato a Misano e il team è composto da una ragazza americana e da una inglese, non conoscono la pista! Però io voglio loro molto bene, penso siano piene di vita e sono fiera di loro. E poi sì, loro si fidano di me, non so come ho fatto ad essere così fortunata. Misano sarà interessante e io prego per la pioggia, perché Mallory (Dobbs, americana di Olympia, ndr.) è quattro secondi più veloce di chiunque altro sul bagnato».
Poi però vedremo il sole a Misano e ci strapperà un sorriso pensando a questo momento.
«Ma sì, queste sono le corse. Mallory va fortissimo e avrebbe potuto stare più in alto in classifica, con Lissy (Whitmore, britannica, ndr.) abbiamo un piano di crescita. So dove vogliono arrivare nelle loro carriere e le porterò lì. Io lavoro con gli sponsor, gli ingegneri, tutto il resto. Poi verrà il momento in cui sarà tutto nelle loro mani e ho grande fiducia in quello che potranno fare».
Maddi, sei un film ambulante. Perché non scrivi un libro?
«Non penso che qualcuno lo leggerebbe. Cosa vuoi leggere? Ho preso fuoco? Sono stata fidanzata? La mia vita è più come una telenovela».
Beh, alla fine la storia è solo lo sfondo. Sono le idee che contano, no?
«Il problema di scrivere un libro è che la storia non sarà finita finché non sarò morta. Non avrebbe senso scriverla, la strada è ancora lunga. Saremo al capitolo… tre? Forse. Non lo so, però è divertente pensare che molto di quello che mi è successo nella mia vita personale mi ha spinto in quella professionale, una non esisterebbe senza l’altra. Ho vissuto tra piloti, squadre, paddock, corse su strada, corse in circuito… fanculo, ora che ci penso pure corse sull’acqua, perché ho un amico che è un campione di sci nautico! È un mondo enorme, bellissimo. Forse lo scriverò un libro, anche se magari non sarà quello che si aspetta la gente».
Si fotta la gente?
«Ma sì, si fottano tutti!».
L’intervista è finita. Senti, ora ho bisogno di un consiglio: fai conto che io stia guidando una macchina da rally a 240 Km/h, in pieno overdrive. So che tra poco prenderò in pieno un albero.
«Gli alberi arrivano sempre».
D’accordo. E quindi cosa dovrei fare? Rallentare? Chiudere gli occhi sperando che il colpo non mi uccida?
«Quello che ho capito della vita è che se domani ti svegli morto il mondo va avanti. Succede con o senza di te. Non puoi scegliere quando ti accadono le cose belle o quando ti succedono quelle brutte: cazzo, la vita succede. Le persone più fortunate che conosco sono quelle che hanno avuto la strada più dura. Sono quelle che hanno pianto di più, che se ne vanno tardi la sera e arrivano presto la mattina. Non esiste la fortuna. Tu sorridi, saluta, stringi le mani, trovati nel punto giusto al momento giusto, assicurati di essere lì. E poi puoi trovarti a fare tutte queste cose e prendere fuoco comunque. Puoi sempre ritrovarti in un incidente. Questa è la vita. Dio, se mi svegliassi morta domani almeno mi sarei divertita. Il punto è che non puoi decidere quello che ti succederà nella vita. L’unica cosa di cui hai il controllo, l’unica fottuta cosa che puoi scegliere, è se vivere o meno. La vita accade, divertiti».