Non è che mi piacciono i piloti, a me piace guidare.
La policy editoriale di questa rubrica è dire tutto quello che gli altri non dicono, ma certe cose forse starebbero bene in archivio, giù in fondo.
Eppure, come direbbe una vera influ, Me lo chiedete in tanti e, dai, chiudiamo la faccenda, perché questa sabbia rende tutto più puro.
Prendiamo il lato ironico e ridiamoci sopra: sono finita a correre la Dakar su di un camion, il sogno di una vita, mentre nel bivacco e su di un altro camion alla Dakar ci sono pezzi ingombranti del mio passato. Lavorativo, di vita, di tutto. Non avevo mai creduto a quelle frasi un po’ fataliste sul chiudere i conti e sul destino. Eppure eccoci qui, a cercare il coraggio di riderci sopra.
Partiamo dal fatto che no, non sento la mancanza dei giorni psichedelici in cui leggevo i cazzi miei scritti da altri, in cui la radio parlava di cose che non sapevo neanche io sulla mia vita privata e che testate prestigiose come Novella 2000 inventavano foto (senza neanche l’aiuto dell’intelligenza artificiale).
Essere invisibili è un superpotere.
L’ho imparato tardi.
Certo, c’è stato un tempo in cui un ragazzo con un sogno aveva, tra le altre cose, la mia stima. Non tanto perché guidava una moto da corsa a 340 chilometri all’ora, ma perché aveva il coraggio di provare a guidarla sopra ai ricambi che non c’erano, nonostante le partenze dal fondo della griglia, con i viaggi scomodi, per la sana ossessione di dover conquistare qualcosa.
C’è stato un tempo in cui per essere felici bastava una birra, un panino e due moto da enduro sderenate nel bosco dietro casa.
Poi quel ragazzo, quel sogno e quelle ossessioni sono cambiate.
Un po’ come quando non c’erano i soldi e vivere così non era un obbligo, come direbbe Gemitaiz.
Come in tutte le faccende della vita qualcuno ha più dato, qualcuno ha più preso, dopo dieci anni è quasi difficile ricordarsi perché.
Per favore, non parliamone più.
Quella storia lì è stata sempre legata a doppio filo al mio lavoro di prima, di quando sproloquiavo davanti a una telecamera per la cancelliera di tutte le emittenti televisive: Sky.
Le due storie sono finite di pari passo e per entrambi non ci sono rancori.
Ci siamo talmente scurdat o passat che sono a fare la Dakar su di un camion, dove l’unica cosa che conta è il deserto, un vuoto disteso che ti obbliga a essere nel qui e ora. A non poter scappare, per quanto ti possa correre dietro quello da cui stai scappando. Spesso non c’è rete e mi ritrovo con i miei pensieri. Perché si, a casa non vado neanche in bagno, senza l’iPhone. Così finisco per inquadrare meglio che cos’è la Dakar, mi tornano le parole del (grande, enorme) Franco Acerbis sul deserto, sull’impatto totalizzante nelle vite di chi lo attraversa.
Credo che ci si trovi sulla pedana della Dakar non tanto perché non si ha paura di morire, ma piuttosto per la paura di non vivere.
Cosa ti porta qui? La mia amica Domi, Domitilla Quadrelli, direbbe che ogni ragazza lo fa per superare qualcosa, per tornare dalla guerra, per un riscatto silente.
La mia battaglia per molto tempo è stata con loro, quelli che ti dicono lascia stare che non fa per te, che non ce la fai. Oggi che le guerre con loro le ho già perse, tutte, e ne sono uscita a pezzi - sì, le fotine su Instagram non dicono sempre la verità - mi trovo a lottare contro me stessa.
Quei sorrisi forzati mi sono costati anni di gastriti, di analisi, qualche pillola per dormire. In quegli anni leggevo molto su di me, parole vere che mi ferivano, bugie che mi ferivano come solo le stilettate ingiuste sanno fare. Ho sofferto, ho smesso di aspettare scuse che non arriveranno più, e sono stata brava a coprire le occhiaie che erano sempre più blu. Fa anche rima.
A un certo punto stavo perdendo tutto, dove tutto non é una sineddoche. Eppure poi arriva un momento, come in primavera quando togli il cappotto, che ti togli l’inverno di dosso.
Non sono mai stata fortunata con gli uomini che mi sono scelta e oggi, con un po’ di coraggio, posso dirmi di essere diventata Io l’uomo che avrei voluto al mio fianco.
Voglio poter girare l’ultima pagina di un lungo -e bellissimo a modo suo - viaggio che è iniziato anni fa nel motorsport e che mi ha portata a girare il mondo, a sgomitare per non soccombere tra i commenti degli uomini che sanno essere taglienti, a piangere con le mie colleghe perché ti vogliono con la minigonna sullo sgabello e tu vorresti mettere le sneaker per camminare nel paddock e semplicemente parlare, come gli altri, perché quella minigonna delle volte te la vorrebbero togliere e tu non sei una moralista ma di fartela sfilare non è che ti va specie se quel che ti propongono in cambio è mantenere qualcosa già tuo di diritto.
Non ti va di dover obbedire a qualcuno meno capace di te solo perché è un uomo e per definizione lo sa fare meglio, di essere pagata molto per il tuo lavoro ma comunque meno di loro. Di avere il coraggio di dire quello che pensi, anche se la voce ti trema perché sai che in quella stanza quando parlerai sarai sola contro tutti, loro.
Certo, è la vita.
Ognuno ha il proprio Everest, ognuno ha quella cosa in mente nella vita che sa che di più non c’è. Il punto più alto per me, l’Everest della vita in senso simbolico, era il rally più duro e difficile del mondo, una gara nel deserto per maschi alfa.
La mia Dakar è avere lottato contro me stessa e vincere, dire vedi che ce l’hai fatta, che sei capace, che se lo immagini diventa reale.
E poi, finalmente, rilassarmi.
Sono cresciuta da bambina guardando Ayrton Senna che guidava le macchine da corsa, e mi piace quella cosa lì. Quella tigna lì.
Non è detto che tu ci riesca ma vale la pena provarci.
Nessuno ti prenderà per mano per accompagnarti oltre il tuo limite, la differenza tra i bambini e gli adulti è questa: diventi grande, invecchi, e nel posto giusto ti ci devi accompagnare da solo. E no, non è quasi mai una passeggiata.
L’alternativa è raccontarsela, l’alternativa è l’alibi dell’abitudine. L’alternativa è non scegliere mai per davvero, né buono né cattivo e far finta di essere a posto con la coscienza.
Il deserto è un po’ come latino al liceo, che non serviva apparentemente a niente se non a darti una svegliata, un modo di ragionare: nel deserto “non sono capace” non è sostenibile, perché se non sei capace diventa dura ritornare a casa. E allora ci provi, apri una via, ti butti in una pista con il dubbio che non sia quella giusta e lo devi fare a 110km/h, mentre la vita scorre e magari ti riesce così e così, ma intanto vai.
Qua dentro capisci che la fortuna, così come la vita a 40 anni, è un volano: comincia a girare se tu per prima cominci a partire.
Credo che il coraggio somigli a questo.
E io nel coraggio credo molto.