Il prologo del 3 gennaio è andato, questo è il giorno uno di gara. Mi rivedo in un frame tragicomico a metà speciale, chilometro 162 con una pioggia di punti esclamativi sul roadbook, dove non dovrei, ma chiudo gli occhi più di qualche istante perché sbattiamo -ancora, forte- e non posso bestemmiare nell’interfono. E poi la polvere. Tanta polvere.
Ripenso al ritmo della speciale: tra poco siamo al CP, controllo orario, tra poco si riparte per quella dopo, tra poco si arriva. La giornata è scandita da un trasferimento e una speciale, un trasferimento e una speciale. Così fino a sera.
Come un vero atleta so che la affronterò con grande e sconclusionata improvvisazione. So che dovrò masticare ogni centimetro e ogni nota, dal momento che la cavalleria nel cofano non è mai abbastanza e che comunque non verrà a salvarmi, quello succede solo nei film.
Entro in uno stato mentale dove il resto del mondo scompare: rimaniamo io, i Crash Test Dummies in loop con Mmm Mmm Mmm Mmm e il sedile del camion al quale sono indissolubilmente legata in un corpo a corpo in cui il mio avversario principale è il collare hans che mi batte sulla clavicola sinistra a ogni buca. E pooi la fatica, che spero mi voglia gentilmente passare sopra e lasciar finire quello che ho iniziato.
Il deserto mi ha già frullata ieri, ma siamo ancora qua.
Questo dopo aver invocato l’aiuto di tutti i santi che conosco e che sono quasi gli stessi contro i quali inveisco, che poi forse è il motivo per cui non mi prendono sul serio. Comincio a sentirmi un trattore, forse sono una motrice, ormai conto la sfacchinata in tempo e non più in distanza, non più in waypoint, ma in tempo che si traduce in autonomia: respirare, smettere di sudare, rilassare il collo, poter mollare i piedi dal roll bar dove mi tengo aggrappata.
Comincio a visualizzare il limite, è un muro di cemento troppo alto per essere scavalcato, troppo duro per essere abbattuto. Sto muraglione mi viene incontro e penso che almeno fuori dalla speciale ci dobbiamo arrivare.
Alla fine ci arriviamo: in qualche modo, ok, ma ci arriviamo.
Arriviamo al trasferimento, penso di rilassarmi e quasi subito mi rendo conto che sarebbe stato più che altro un prosieguo della prova, lo avevano anche detto ieri sera al briefing. Così mi ritrovo tra dunette misto erba di cammello che somigliano più che altro a dei crateri lungo tutta la pista che io, per altro, non riesco più nemmeno a vedere bene perché dei cinque sensi sicuramente l’udito e la vista sono saltati.
Ogni buca mi tuona nelle braccia e nella schiena, così mi immagino di essere un orsetto gommoso che attutisce i colpi. Non serve, ma fa ridere.
Ad ogni modo arriviamo alla fine, non mi sembra vero di girare l’ultima pagina del roadbook. Stanca di una stanchezza vergognosa nei confronti di chi lo fa per sport sport mi butto sotto la doccia, più per disperazione che per volontà. Perché stasera, signori, è giorno di doccia.