Al momento mi sento come una di quelle ceramiche Kintsugi che esaltano le ferite, rotte e tenute di nuovo insieme, solo che al posto delle colate d’oro io ci ho messo quantità industriali di antinfiammatorio.
L’idea di base nello schierarmi -di nuovo- alla partenza di una gara fuori dalla mia portata (quale con ogni evenienza è la Dakar) è che quando non riesci a fare una cosa, quello è il momento di cominciarne un’altra alzando l’asticella. Un po’ come quando ero scontenta del mio risultato al Red Bull Erzbergrodeo, convinta che quei 16 minuti e 10 secondi che ho impiegato per risalire la cava in Austria si potessero migliorare, e ho ben pensato di iscrivermi al Mondiale di Hard Enduro, al Red Bull Abestone.
Ecco, le sensazioni che ho nelle ossa adesso somigliano a quei giorni lì. E io che pensavo di essermi allenata, che carina.
Oggi non è andata bene.
Non ho tempo per fare la doccia.
Sono le 23.30 e i lavori sul camion sono a metà.
I miei lavori di scarico dati e preparazione della tappa di domani sono in alto mare.
Ho ascoltato poco e male il briefing.
Il morale non ai massimi stellari. Del resto le stelle neanche si vedono con questa tempesta di sabbia che arriva puntuale a scavarti l’anima ogni sera, pare di stare al Burning Man.
È un po’ presto per cedere, per la Madonna.