La Dakar di quest’anno è stata speciale. Le immagini sempre spettacolari, i mezzi spaventosi. Quest’anno Danilo Petrucci l’ha un po’ cambiata per sempre, non soltanto per noi italiani in fissa con la MotoGP. Danilo è il primo uomo al mondo ad aver vinto una gara nell’olimpo della velocità e nell’inferno del rally, questo è un fatto. È andato nel deserto con tutto da perdere, circondato da persone che gli dicevano di non esagerare. Anche la Dakar ha cambiato Petrucci, che assieme a Francesco Catanese e Cesare Zacchetti si è presentato al Deus Café di Milano per parlare della corsa che ogni anno porta gloria e dolore nel deserto. La serata, organizzata da Paolo Ianieri che la Dakar l’ha vissuta per otto edizioni, è stata battezzata Gli Esploratori dei Deserti per spiegare le cose già dal titolo: mica ci vai solo per fare la gara, laggiù. Ti ci prepari tutto l’anno, spendi i tuoi risparmi. Corri mentre stai facendo un viaggio e viceversa, diventa una droga.
Paolo ha voluto raccontare la gara da tre punti di vista differenti: quello di Danilo, che ci ha corso con un team ben preparato, quello di Francesco Catanese che stavolta l’ha affrontata con l’assistenza e il terzo, di Cesare Zacchetti, che se l’è fatta tutta da solo, sistemando la moto una volta arrivato - completamente esausto - al bivacco. A ospitare l’evento da Deus c’era Filippo Bassoli, da sempre grande appassionato di fuoristrada. Non è stata una conferenza stampa, Gli Esploratori dei Deserti si avvicinava più alla chiacchiera da bar. Poche persone - non pochissime per la verità - e poco spazio a dividerci. Loro hanno parlato a turno, raccontandosi con le immagini delle dune in sottofondo dominate da quei mezzi tra il futuristico e il post-apocalittico. Ci hanno raccontato che nel deserto puoi piangere da solo. Che è come fare la guerra. C’erano foto incredibili di Gigi Soldano, seduto in ultima fila e quasi in imbarazzo per i complimenti di tutti. C’erano Aldo e Andrea Winkler, padre e figlio, che l’hanno corsa assieme su due moto. C’era Ottavio Missoni seduto in disparte sulle scale con l’idea folle di iscriversi alla prossima edizione.
Cesare è un’esplosione di gioia, Francesco è più riservato. Danilo è sereno perché, anche se magari non lo dice a chiare lettere, si è innamorato della Dakar e si gode una scelta giusta: “Ho smesso di correre nel mondiale perché non ne potevo più - ha raccontato durante la serata - la Dakar mi ha aiutato, ero incuriosito. In MotoGP l’ultima cosa che fai è andare in moto, perché in MotoGP fai le riunioni. Quando il 6 dicembre mi sono rotto l’astragalo nei test, il dottore mi ha detto che non avrei potuto appoggiare il piede in terra per due mesi, ma ho fatto di testa mia”. Infatti è andato a sedersi zoppicando, ma ha raccontato la sua Dakar con parole vere, lontanissime da quelle misurate con il contagocce che siamo abituati a sentire dai piloti in MotoGP: “Non sapevo cosa fosse un bivacco, non sapevo niente. Però alla Dakar ho ritrovato la gioia di andare in moto. Pensavo ad andare forte, ma ho avuto anche dei momenti di godimento puro. Sei solo con la moto per tante ore, guidi, dà gusto, uno si dimentica che la MotoGP non è divertente. Se chiedi a un calciatore se si diverte a giocare la finale di Champions secondo me risponde di sì solo se ha vinto. Ma giocare la partita no, non è divertente. Tante volte alla Dakar mi veniva voglia di segare in due la moto: il giorno dopo aver vinto sono caduto forte, mi sono rialzato stanco e confuso, ero completamente solo. C’erano queste rocce bianche e le tracce delle auto, io non sapevo nemmeno dove fossi. Mi sono detto ‘il mio l’ho fatto, vado in aeroporto e me ne torno a casa’. Solo che il telefono non prendeva e mi è toccato finirla”. Lo ha raccontato ridendo, ma la sensazione è che stesse parlando sul serio.
Cesare, che alla sua prima edizione della Dakar (in Sud America) ha dato fuoco alla moto, ha cercato di spiegarci la differenza tra lui, Petrucci e gli altri: “Danilo sta facendo moltissimo per il nostro rally, ha rianimato la passione di tutti. In questi posti qui sembra facile andare forte, a vederli pensi che basti sgasare perché tanto c’è spazio. A cento all’ora ti sembra di non andare avanti, ma se cadi ti fai male. A 120 Km/h i rischi aumentano in maniera esagerata. A 140 Km/h tutto quello che ti passa sotto le ruote arriva a una velocità incredibile. Per qualche secondo, durante la gara, ho fatto i centosessanta: ero in una dimensione di estasi totale, vedevo la luce, una roba da manicomio. Poi ho incontrato Danilo e l’ho visto un po’ amareggiato. Mi ha detto che a più di 177 Km/h la sua moto non andava (ride). Questo è l’uomo di cui stiamo parlando, io invece lo faccio come un viaggio e non mi vergogno a dirlo, in quei trasferimenti folli che durano un’infinità parlo da solo, canto, rido e piango. Sono cose pazzesche, la solitudine in quei posti ti dà qualcosa di incredibile”.
Francesco invece parla meno, ma quando lo fa capisci che è innamorato della moto e del deserto: “Danilo in carriera ha bastonato Marquez, Valentino, Toby Price, Barreda. Dopo la sua vittoria nel paddock c’era il silenzio, li ha mandati tutti dallo psicologo. Questi saltano le dune tutto l’anno a trecento all’ora, fanno le foto, si preparano. È arrivato lui e li ha bastonati tutti”.
In tutto questo, Petrucci era tra il divertito e l’imbarazzato: “Apprezzo i complimenti, ma la verità è che non avrei il coraggio di fare quello che hanno fatto loro. Mi chiedo chi cazzo glielo fa fare di correre la Dakar, io faccio il pilota da quando sono nato e questa è una corsa durissima. I trasferimenti su asfalto per esempio… sono la goccia cinese. Quando capisci che devi fare centinaia di chilometri di notte ti passa la voglia. E la cosa peggiore è il cicalino del GPS, che se vai troppo forte inizia a fischiare e allora ti tocca chiudere il gas. Il primo giorno abbiamo fatto 19 chilometri di prova e 600 di trasferimento. Adesso vado a correre in America, sarò lì da aprile a settembre, poi però mi piacerebbe rifare i rally: ho trovato un ambiente molto più consono al mio carattere, diciamo che in MotoGP ho chiuso la mia carriera felice di aver sempre dato il massimo, essere lì era un sogno. Negli ultimi anni però, sia con Ducati che con KTM, non mi divertivo più. Lavoravo tanto a casa, mi impegnavo come un matto, però quando non hai più il gusto di guidare ti passa la voglia. Con la Dakar ho vissuto di nuovo la passione e magari tornerò a farla”.
La serata è stato un po’ questo, un po’ altro. È stato sbirciare dalla serratura quel mondo che nonostante tutto è ancora autentico, quasi refrattario alla tecnologia. Ci sono la prestazione e la tecnica, i team ufficiali e un bel giro di soldi, tuttavia qualcosa dello spirito di Thierry Sabine è rimasto. Altrimenti non ci saremmo trovati tutti lì, da Deus, inebetiti davanti alle foto e ai racconti di quei tre reduci della Dakar. Finisce che ti ritrovi a fine serata, quando le due di notte sono passate da un po’, a chiedere di salire sulla moto di Cesare Zacchetti. E lui è contento, perché la Dakar è il suo fight club. D’alronde, se dopo dieci anni di MotoGP ti ritrovi a piangere di commozione in mezzo al deserto, qualcosa in mezzo alle dune dev’esserci per forza.