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La diversità di Nicolò Barella

  • di Pippo Russo Pippo Russo

12 novembre 2020

La diversità di Nicolò Barella
Personalità vera, puro nerbo. Un giocatore intorno al quale bisognerebbe ricreare il perduto stampo delle mezze ali, e così provare a ri-produrle in serie. Intanto teniamocelo stretto. E lasciamo stare i paragoni con Marco Tardelli. Lui è Nicolò Barella. Fortunato chi può schierarlo.

di Pippo Russo Pippo Russo

Il ragazzo non ha eguali. Punta dritto verso le proprie responsabilità, sia quando deve attaccare che quando gli tocca difendere. Si lancia nella lotta, affronta l'avversario, cerca di batterlo nel duello uomo contro uomo. E qualcuno vi dirà che è moderno. E invece è soltanto di un altro tempo, che è un tempo antico. E in fondo, cosa di più moderno che riportare nel presente il meglio del passato?

Il ragazzo è Nicolò Barella da Cagliari, classe 1997, professione centrocampista d'eccezione. Portatore di una diversità che viene da lontano e rimette nei campi da gioco del Ventunesimo Secolo un profilo da calciatore ch'è andato perso verso la fine del Secolo Ventesimo nella generale disattenzione. Perché siamo tutti coscienti di avere smarrito gli stopper e i liberi, i terzini “fluidificanti” e le ali “tornanti”. Soprattutto, siamo coscienti di avere perso le denominazioni di ruolo che parlavano degli individui anziché delle posizioni in un ingranaggio macchinizzato. Li chiamavamo terzini ma poi li abbiamo ribattezzati esterni, e l'ultima evoluzione (?) linguistica ce li fa denominare “quinti” di centrocampo quando le difese vengono schierate a 3. Gli anomali, quelli che proprio nel linguaggio macchinistico non possono essere inquadrati a meno di etichettarli come “rotelle sfuggite all'ingranaggio”, li abbiamo collocati “tra le linee”. E presi da questo delirio tecno-linguistico abbiamo creduto esistessero ancora le mezze ali. Le nominiamo tutte le volte che vogliamo indicare calciatori che occupano quelle posizioni lì, o che giocano in quel tal altro modo. Ignorando che quel profilo di calciatore appartiene a un'altra epoca.

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Barella esulta dopo un gol

Era l'epoca in cui le mezze ali esistevano davvero. E il fatto d'essere “mezze” rispetto agli artisti puri (i numeri 10, gli eletti dagli Dei del Pallone) iniettava loro un'inestinguibile ansia di auto-superamento. La volontà di approssimarsi al sublime senza mettere in discussione la gerarchia. Era piuttosto una questione di sentirsi degni di stare accanto all'artista puro. E dunque, essere artisti di complemento, ma anche podisti di qualità. Un po' operai alla catena di montaggio e un po' apprendisti al fianco del maestro di bottega. Dei metaltigiani, come un tempo nelle fabbriche del boom industriale esistettero i metalmezzadri. E cosa avevano di particolare le mezze ali, quelle vere? Avevano, innanzitutto. Talento, corsa, e in special modo iniziativa. Erano ali a metà, dunque possedevano alcune cifre del DNA che comandavano d puntare l'avversario, e l'azzardo del dribbling, e il colpo di tecnica raffinata. Ma erano anche “uomini di mezzo”, lì dove un tempo c'era la tonnara vera e per lunghi tratti di partita bisognava tirar su le maniche e abbassare i calzettoni, per dare a vedere che non s'aveva paura d'incrociare gomiti e tibie come fossero durlindane.

Vi pare di vederne adesso in circolazione, di calciatori così? Date un'occhiata all'esercito dei mezzocampisti che popola i nostri campi da gioco. Figli della lunga evoluzione che parte con gli Anni Novanta e trova l'emblema italico in Demetrio Albertini. Il bravissimo ragazzo che vorreste vedere come fidanzato di vostra figlia (e per questo vostra figlia vi manda in culo a vita, ma questo è un altro discorso), e che al centro del campo si metteva diligentemente a smistare palloni laterali come fosse distribuire i cestini del pranzo sul set di una produzione cinematografica. Iniziava da lì, per gli uomini di centrocampo, l'espianto dello spirito d'iniziativa. Poco a poco il centro del campo si è trasformato in una comfort zone fatta di uomini semplici cui affidare mansioni elementari e complementari: il trasferimento del pallone dalla difesa all'attacco, dafarsi nel modo meno complicato possibile, e il contrasto di posizione al gioco avversario.

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Nicolò Barella

Un'evoluzione che infine ha trovato compimento quando il compito di pensare e creare il gioco è stato affidato ai difensori, ormai ibridati in versione quarterback cui il coach affida il libro degli schemi. Da loro, fortissimi a impostare ma ormai incapaci di difendere, la catena di trasmissione del gioco passa direttamente agli attaccanti e a “quelli fra le linee”, con gli uomini di mezzo che si occupano di bassa logistica e copertura del rischio. Saltati sovente, e costretti a movimentazioni “avanti e indietro” come fossero agitati dentro una bolla d'acqua e neve finta. La nuova manodopera dequalificata, umile nelle mansioni e facilmente sostituibile col ricorso allo sterminato esercito industriale di riserva. Una vita da metalmediani.

Ma poi, nel pieno di questo Grigio Evo dei mezzocampisti, ecco l'eccezione di Nicolò Barella. Il ragazzo che attacca palla al piede, e dribbla, e si lancia da incursore “fra le linee”, che poi magari ruzzola ma un istante dopo si rialza come fosse di gomma, e feroce e va a braccare l'avversario che lo ha intercettato ché c'è una questione personale da risolvere. Personalità vera, puro nerbo. Un giocatore intorno al quale bisognerebbe ricreare il perduto stampo delle mezze ali, e così provare a ri-produrle in serie. Intanto teniamocelo stretto. E lasciamo stare i paragoni con Marco Tardelli (opinione personale: il più grande e completo calciatore italiano fra quelli che abbiamo visto giocare). Lui è Nicolò Barella. Fortunato chi può schierarlo.

 

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