E’ il 23 ottobre. Sono 14 anni dal maledetto addio a Marco Simoncelli a Sepang. E abbiamo una domanda: come si può riempire il verbo “ricordare”? Sì, ok i post, ok le parole da far ricorrere, ok tutta la dolcezza che c’è e la tenerezza che si percepisce ogni volta che si torna a quel giorno lì. A quel 58. A quel pilota lì. A quel ragazzo lì. Però “riempire il ricordo” deve per forza essere qualcosa di più. E in questo ottobre, proprio a ridosso di questa ricorrenza di oggi 23 ottobre, c’è qualcosa che sta succedendo nel motorsport e che forse – come se il destino legasse sempre un po’ tutto anche quando i suoi disegni fanno schifo – è grimaldello perfetto per “riempire il ricordo” di Marco Simoncelli nel giorno in cui sono 14 anni da quando gli abbiamo detto addio. "Se sono qui con la polizia, a temere per la mia sicurezza, questo non è più sport" – sono parole proprio di Marco Simoncelli, che si ritrovò scortato al Montmelò dopo il botto con Dani Pedrosa e la reazione folle di alcuni tifosi spagnoli che erano arrivati a minacciarlo di morte. Con tanto di proiettili spediti a casa. Ecco, qualcosa di molto simile sta succedendo adesso (abbiamo già raccontato tutto, agghiaccianti messaggi compresi, qui), solo che con in più il gran casino che fanno i social. La questione è nota: alcuni tifosi, soprattutto turchi, di Toprak Razgatlioglu che, dopo l’incidente con Nicolò Bulega in Superpole Race a Jerez, stanno tempestando di minacce, insulti e messaggi d’odio il pilota italiano della Ducati. Le persone a lui vicine. I suoi familiari e persino i suoi amici. Compreso un Pecco Bagnaia che, solo per essersi congratulato con Bulega per la sua stagione, s’è ritrovato commenti d’ogni tipo addirittura sotto al post in cui ha condiviso le foto del suo matrimonio.

Roba, insomma, da far dire proprio quella frase che fu di Marco Simoncelli: “questo non è più sport”. Così, nel tentativo di “riempire il ricordo”, abbiamo alzato il telefono e chiamato la Kate. Chi è non serve spiegarlo. “Ho condiviso anche io il post di Nicolò – ha detto – tra l’altro selezionando proprio la parte in cui dice che nel motorsport non c’è bisogno di ultras. Ogni volta che succedono cose così è molto triste e ho l’impressione che questa volta stia tutto degenerando ancora di più, visto che i protagonisti si sono chiariti già domenica (qui il racconto) come si fa tra veri sportivi e che non c’è motivo per parlarne ancora. Figuriamoci se può essercene per insultare, minacciare o arrivare a tanto. Così non è sport”.

No, non l’abbiamo chiamata per il solito ricordo su Marco nel solito anniversario (ci avrebbe risposto “no, grazie”). Ma appunto per provare a “riempire il ricordo” con il ricordo di quando quello che sta succedendo oggi a Bulega e intorno a Bulega ha toccato anche lei. Poco più che ragazzina. “Io – dice – in verità non c’ero nella gara in cui Marco ebbe l’incidente con Pedrosa. Mi ricordo solo che, al telefono, gli chiesi se quella manovra fosse proprio necessaria e lui, con quel modo li che aveva, mi ammutolì facendomi ridere e dicendo qualcosa che suonava più o meno così: 'no, ma ho pensato: lo passo qui o la curva dopo? Beh, un tutti in piedi sulla tribuna… ci sta! Pensa che spettacolo se mi fosse riuscita’. Sono piloti, sono così, per loro conta il momento, la vittoria, quell'attimo lì, ma poi finisce tutto poco dopo e questo tanti che si dicono tifosi del motorsport sembrano non volerlo capire più. Quello che succede in pista riguarda la pista. Non lo vogliono capire da troppi anni, al di là di chi tifa per chi. Ricordo bene, invece, quando arrivarono a casa i proiettili e tutto il casino dopo, con Marco che fu scortato dalla polizia per tutto il tempo a Barcellona, propri pome è successo a Bulega a Jerez. Sono cose che un pilota, nessun pilota e nessuno sportivo in genere, dovrebbe vivere mai. Anche perché segnano e fanno male sul piano umano”.
Ecco, è il 23 ottobre e sono quattordici anni che Marco Simoncelli non c’è più. Vanno bene i post, va bene tutta la dolcezza che si percepisce ogni volta in questo giorno, ma forse mai come adesso è esattamente quella frase lì - “se sono qui con la polizia, a temere per la mia sicurezza, questo non è più sport” – quella perfetta per riempire il ricordo e agire di conseguenza. Tutti e ognuno per come può e il potere che ha. Perché la MotoGP sta cambiando, il motorsport è di fronte a una mezza rivoluzione e onorare i valori dello sport deve significare anche fare in modo che il marciume finisca definitivamente fuori per mano dei protagonisti stessi (Toprak ha già preso le distanze e il suo manager si è anche scusato per il comportamento di alcuni tifosi), ma anche da parte di tutti gli sportivi veri. Che sono di più, anche se più silenziosi, di quei pochi che ogni volta rischiano di rendere tutto troppo simile a ambienti che ormai hanno più a che fare con delinquenza e criminalità che con lo sport stesso.