Lewis Hamilton sbaglia a Spa Francorchamps. Lo fa al via di un primo giro dominato dal caos come da tempo non siamo abituati a vederlo sbagliare. Quando ti chiami Sir Lewis Hamilton, sulla testa hai un titolo reale e di lavoro fai il sette volte campione del mondo di Formula 1 sbagliare non fa esattamente parte del tuo DNA e accettare l’umanità che, seppur raramente, di tanto in tanto tocca anche te, non è così facile.
Non lo è per chi nella vita fa un lavoro normale, per chi colto sul fatto si nasconde dietro il proprio caratteraccio, o usa come scudo gli insulti, i compromessi, le giustificazioni. E qualche volta non lo è anche per loro, supereroi di un mondo fatto di rischio, velocità, adrenalina fuori da ogni limite umano. Si sbaglia tanto, anche in Formula 1, e ammetterlo è difficile come altrove. Si prova a dare la colpa alle gomme: troppo fredde, troppo usurate, poco adatte, poco stabili, sbagliate, rovinate, impossibili da far andare in temperatura. Si prova a dare la colpa agli avversari: quelli davanti, quelli dietro, quelli che neanche c’erano (Grosjean insegna), quelli che non hanno colpe.
Si prova tutto, perché la propria vulnerabilità spaventa sempre, e terrorizza ancora di più dentro un mondo in cui essere così, vulnerabili e pronti a sbagliare, non è mai concesso. Ed è all’Università della Formula 1, tra i saliscendi della bellissima Spa, che con un errore Lewis Hamilton ci insegna la prima lezione. Quello con Fernando Alonso al via è un incidente di gara in cui lui ha avuto la peggio mentre lo spagnolo ha proseguito la sua gara, chiudendo con una quinta posizione di tutto rispetto, e alzare le spalle parlando di “incidente di gara” e di “colpe condivise” sarebbe stato facile per lui. In fin dei conti è così che lo ha considerato la FIA, scegliendo di non assegnare penalità, e la sua uscita di scena al primo giro di gara è una punizione più che sufficiente. Invece no: Lewis Hamilton torna ai box, dopo una camminata in solitaria tra la desolazione del fuoripista, scende al ring delle interviste e ammette candidamente di non aver visto Alonso.
È tutta colpa mia, dice. Non l’ho visto, era nel mio punto cieco, pensavo di avergli dato spazio. Una lezione di maturità da chi, con il tempo a fargli da maestro, negli anni ha imparato la saggezza del riconoscere i propri errori, le proprie debolezze e i propri meriti. Che te ne fai, di una scusa? A che ti serve incolpare un altro? Si mette dritto con la schiena e si scusa con tutti, aggiungendo poche ore dopo, sui social, una considerazione che vale più di mille interviste: “Corro da quasi 30 anni ma la sensazione lasciata da un errore ferisce profondamente come la prima volta”.
Ed è qui, la seconda lezione di Lewis. Nessuno, tra i record del suo successo stellare in Formula 1, ricorderà questo Gran Premio di Spa. Nessuno, se non Hamilton. La stessa forza che lo muove e lo spinge a restare con i suoi uomini fino a tarda notte il sabato, per cercare di trovare una soluzione a una monoposto instabile e lontana dai top team, è la stessa lo lascia ferito dentro a un errore piccolo, a una parentesi in una stagione complessa in cui lui, ancora una volta, sta lottando come un leone. È la determinazione delle vittorie, delle sfide e delle sconfitte, è il duro lavoro che non spieghi, ma che fai e basta. Anche quando il tuo corpo, la tua età e i tuoi trofei ti dicono basta, va bene così.
Ma la terza lezione di Lewis arriva da quello che non dice. Non risponde alla rabbia cieca del team radio di Fernando Alonso che, coinvolto nell’incidente al via, dà a Hamilton dell’idiota, dicendo che “sa guidare solo quando parte primo e arriva primo”. Un’antipatia antica che i due si portano addosso fin dai primissimi giorni in Formula 1 del britannico, quando condividerò un turbolento box McLaren nel 2007. Ma anche la stizza di chi parla usare la testa, mentre al posto del sangue scorre solo l’adrenalina. Non risponde alla rabbia, Hamilton, perché conosce bene lo stesso sentimento, e conosce l’uomo che ha pronunciato quelle parole. “Non mi interessa” dice nella prima intervista dopo l’incidente, e di microfono in microfono aggiunge “È bello sapere cosa pensa di me. Meglio che sia chiaro quello che prova”. E se ne va. Senza dare soddisfazioni, frasi su cui ricamare, riaprire vecchi rancori o spostare l’attenzione.
L’attenzione resta sull’errore, sull’ammissione di una colpa, su una ferita aperta dopo una notte di lavoro. E sulle lezioni che questo ragazzo di quasi quarant’anni, eternamente affamato, continua a lasciarci lungo la strada.