Il lunedì mattina dopo il GP del Portogallo lo passo in un parco a Lisbona in attesa dell’aereo che mi porterà a Lione, uno scalo di qualche ora per poi prendere un aereo per Venezia. Compio 31 anni, li festeggio scrivendo appunti appoggiato su di un tavolino. C’è un pallone abbandonato che probabilmente qualcuno ha spedito su un albero e che il vento ha riportato giù. C’è sempre vento a Lisbona. Palleggio un po’, è un bel momento. La vera goduria è che questo lavoro prevede anche momenti così, in cui ti metti a scrivere su di un block notes, di lunedì mattina, tra i tavoli di un parchetto come fossi un artista senza la pretesa di fare lo scrittore.
La sera prima, per raggiungere Lisbona dopo il Gran Premio che si corre a 280 Km dalla capitale, ho chiesto un passaggio a due colleghi. Loro hanno accettato con grande serenità, a riprova del fatto che nonostante esista una certa competizione tra giornalisti nessuno si rifiuterebbe davvero di darti una mano. Così scopro che Paolo Scalera è un grande cultore di letteratura americana, alla quale ha dedicato interi scaffali della libreria con una particolare predilezione per Hernest Hemingway. Mi consiglia Il lungo addio, di Raymond Chandler, e Il Sole nel Ventre di Jean Hougron. Io rispondo con James Ellroy. Matteo Aglio preferisce i sudamericani così gli chiedo qualcosa di diverso da Marquez e Saramago e Cortazar, che piacciono a tutti e due, e lui dice Juan Rulfo: “Te la cavi in un mezzo pomeriggio e ti resta tutta la vita”. Sembra un ottimo affare. Il lunedì mattina se segui le corse è il giorno del poi, dell’analisi, della breve tregua che ti riporta al tuo ritmo.
Inutile fare finta che sia il contrario, la gara sarà anche stata piena di storie da raccontare ma l’apice è stato trovarmi nello studio di Vera Spadini, il salotto buono della MotoGP, per commentare il venerdì delle prove libere su Sky. Vivo sempre dei bei momenti in Portogallo: l’anno scorso ci ho inaugurato la mia prima stagione da inviato con un trauma cranico, stavolta sono finito nel camion di Sky a fare l’ospite in diretta televisiva.
La televisione mi era già capitata per Massimo Giletti per Non è l’Arena e continua a capitarmi, ogni settimana, con Motorcycle Rockstars con Jimmy D su Radio Freccia, che per l’appunto è soprattutto una radio ma viene comunque trasmessa in diretta sul canale 258. La MotoGP però è diversa perché è su Sky, è un canale dedicato e la gente che guarda il 208 di venerdì sa tutto delle corse. L’invito mi precipita addosso senza grossi preamboli tramite Vera Spadini in un messaggio WhatsApp il venerdì stesso: “Buongiorno! Come stai? Sei in Portogallo? Se si ti va di venire a fare l’ospite a Paddock Live Show oggi pomeriggio dopo le pre qualifiche?”. Se me lo avesse detto il giorno prima probabilmente avrei un po’ faticato a dormire. Faccio finta di niente per dieci minuti e poi accetto, avviso in redazione, chiedo consigli alla gente che passa dalla mia postazione in sala stampa. Antonio Boselli, nuovo Responsabile Comunicazione Motorsport di Piaggio, suggerisce leggerezza: “Cerca di divertirti, però preparati bene. Ma prova ad essere te stesso”. Rosario Triolo, telecronista Moto2 e Moto3: “Devi provare a fare dei Tweet, in televisione meno parole usi per esprimere un concetto e più sei bravo. Se ci metti tanto e dici poco invece è un problema”. Paola Saulino, influencer: “E cosa ti preoccupa? Se a scrivere un concetto ti servono dieci parole, in televisione ce ne puoi mettere tranquillamente trecento per dire la stessa cosa. Basta che sai due o tre cose, poi giochi con quelle”. Ognuno mi dice una cosa diversa, così capisco abbastanza in fretta che nessuno può insegnarti davvero come farlo.
A darmi il suo contributo c’è anche Moreno Pisto, direttore di MOW: “Quando sono andato ospite a Quarto Grado avevo un po’ d’ansia da prestazione, lì non è come L’Aria che tira. Prima di entrare, uno che conosco da una vita mi dice in toscano: ‘Oh ciccio, ti devi sentire un po’ come se c’hai il buho di hulo sul divano di casa tua’. Ed è così Co’, è proprio vero cazzo, vai così”. Buho di hulo, casa tua: roba lontanissima da ogni possibile approccio razionale alla cosa, incompatibile con la tensione che ho addosso. Un classico del direttore, eppure di uno così devi fidarti per forza. Ci sono migliaia di maniere per dividere le persone in categorie, una è questa: quelli che alla fine si buttano e quelli che decidono di non farlo. È quasi un discorso di fede, anche se per nulla religioso. È un'attitudine.
Paddock Live Show va in onda alle 16:15 e il messaggio di Vera mi è arrivato verso le undici, vuol dire cinque ore per lavorare a fatica con un mostro che mi fa le capriole in testa. Entro nel camion di Sky venti minuti prima dell’inizio della trasmissione, in tempo per guardare la fine del turno con Rosario Triolo. Nel camion c’è uno stanzino per le riunioni, la cabina di commento con di fronte un piccolo divanetto nero, una macchina per il caffè e lo studio mobile con le vetrate che affacciano sul tracciato. È incredibile come il turno della MotoGP fermi le vite di tutti all’interno di quello spazio così ristretto: anche i tecnici guardano la televisione come se ci fosse la finale dei mondiali e sul dischetto a tirare il rigore fosse il turno di un loro parente. Parlare un po’ del turno mi rilassa. Mi sento pronto al lancio, lo spirito a metà tra quello di un paracadutista acrobatico che sta per tuffarsi dall’aereo e un povero disgraziato legato in mutande su di una catapulta.
Ripenso a quella che per me continua ad essere l’unica strategia corretta in momenti come questo: concentrati sull’esperienza, sul fatto di aver avuto una clamorosa botta di culo, roba letteralmente impagabile perché non c’è un biglietto che ti consenta di fare queste cose. Goditi la prima volta, sii presente, gustati il momento, respiralo. Non c’è altro, non c’è mai stato.
Mentre il turno finisce mi chiamano, è il momento. In studio ci sono due sgabelli, gli stessi su cui hanno appoggiato il culo personaggi come Valentino Rossi o Max Biaggi, mentre Vera starà in piedi, statuaria. Mi siedo e vengo microfonato: il trasmettitore rimane attaccata allo sgabello, quindi una volta in assetto non ti puoi alzare e neanche muovere più di tanto. Assieme al microfono color carne, di quelli che usano sia alle conferenze che a Zelig, c’è una cuffia. Una volta partiti, mi spiegano, non potremo sistemare più nulla, quindi faccio abbassare il volume per paura di perdere le informazioni dallo studio. Nell’auricolare parla la regia da Milano con il coordinamento di Marco Frisoli - che è un po’ come l’operatore di Matrix - a cui si aggiungono le voci degli inviati, i loro ospiti nel paddock e, naturalmente, i piloti. Davanti a me c’è Alessandro Vermini, Pillola, un genovese sui quarant’anni che da anni lavora come cameraman per Sky Sport MotoGP: è particolarmente soddisfatto perché per gestire le telecamere dello studio ha un joystick che sembra trafugato da una sala giochi.
Le informazioni che mi arrivano in quei momenti, non saprei dire neanche troppo bene da chi, sono tantissime: cerca di non guardare troppo in camera ma fallo ogni tanto, sbircia il monitor se vuoi vedere quello che mostriamo in TV, di là c’è quello che mandano da Dorna, non ti ci fissare, vai tranquillo, guarda qui, ok bene, mi raccomando non girare troppo sullo sgabello, a quello non fare caso, perfetto così, fammi un-due-tre, un-due-tre, dai che andiamo.
Nel frattempo arriva Mattia Pasini che mentre viene microfonato sembra uno seduto sulla corriera per andare a scuola: saluta, guarda Instagram, si fissa su di una moto col buco che può fare i quattrocento all’ora. Un po’ lo invidio. Amico mio, gli dico. Mi devi aiutare. Lui sorride.“Forse ti conviene toglierti il gilet, farà caldo”. Ci provo ma rischiano di saltare i cavi e rinuncio quasi subito. “Eh vabbè, vuol dire che tra un po’ avrai caldo, anzi caldissimo”. Vera è d’accordo con lui, ma il caldo mi sembra ampiamente sopportabile. Anzi, in generale quando il caldo diventa il tuo problema vuol dire che di problemi grossi non ne hai. Da Milano chiedono a Vera di fare un conteggio per sincronizzare audio e video, a cui segue un conto alla rovescia di trenta secondi per segnalare l’entrata in onda. In quel momento in studio piomba Guido Meda, appassionato come al suo solito ma decisamente serio: “Mi raccomando”, dice. Non ride, mi guarda dritto negli occhi. Vuol dire non - fare - cazzate. È la stessa sensazione che provi quando un amico, uno che in te vede quella passione lì, decide di prestarti un gioiello a motore per farci un giro: vacci pure, è divertente e ti piacerà. Però non rompere nulla, non sfrizionare, non mettertela per cappello e ricordati di santificare le feste.
Parte la sigla, siamo in onda. Opinioni, battute, qualche risata. La gestione del tempo, almeno per me, è completamente alterata. La televisione di norma è finta perché costruita per intrattenere partendo dal nulla: le storie che vanno in onda, gli ospiti, il pathos. Tutto finto. Nello sport però è diverso perché lo sport ha una grossa componente realistica, imprevedibile come la vita, così anche la televisione che ci gira attorno diventa reale. O, almeno, trovarsi lì in mezzo è stato così.
Dopo un quarto d’ora conto di quante cose facciano abitualmente queste persone: se vuoi farlo bene devi arrivare in fondo a un lungo processo di costruzione e farlo sembrare spontaneo. Può sembrare un’esagerazione ma è così per tutto: per la scrittura, per la pittura, per la musica. Anche se vuoi andare forte in moto è così, te lo fanno sembrare facile e senza sforzo quando in realtà dietro c’è un lavoro immenso. E sono tutti davvero bravi a farlo, dissimulano grande preparazione con una risata, un’entrata al momento giusto. Mattia Pasini è un talento naturale, Vera Spadini dirige lo studio con un ritmo eccezionale, con le battute che funzionano e tutti quei raccordi eleganti di cui da casa fai fatica a prendere coscienza. La ricerca del ritmo, che in radio è notevole e si amplifica mostruosamente alla TV, è una delle cose più impressionanti della diretta. Tu senti una frase composta da 38 parole e non ti rendi conto che chi l’ha detta, se è un professionista, ha scelto di dirla esattamente così per motivi che tutto sommato non puoi comprendere. Il gioco è questo. Va a finire che, come per ogni scienza, quando tutto funziona come dovrebbe il risultato sembra assolutamente naturale.
Quando la trasmissione finisce sono quasi sicuro di non aver combinato un disastro, mi viene da ridere, vorrei abbracciare Pasini che è lì di fianco e pure Vera che sta ancora in posa. Guido torna dentro, stavolta con Mauro Sanchini e la tuta da pista marchiata Sky perché stanno andando a fare qualche giro di Portimão con una coppia di Ducati Panigale V4. Lui, trent’anni di televisione, sembra sinceramente divertito, posso anche giurare che non ha tentato di strangolarmi. Facciamo due chiacchiere, poi loro se ne vanno ridendo su di un monopattino elettrico col casco da ciclisti in testa - come vuole il nuovo regolamento del paddock - mentre Mattia ed io restiamo per Talent Time, in cui Davide Brivio viene intervistato da Sandro Donato Grosso in uno speciale di 15 minuti. Comincio quasi a sentire il caldo.
Mentre debutto in studio Giovanni Zamagni lo fa al backdrop, in quello che dev’essere un piccolo inferno per i reporter: le varie televisioni si litigano i piloti, gli addetti stampa tengono il cronometro in mano per non concedere mezzo minuto di troppo, bisogna coordinarsi con lo studio e aver interpretato bene la corsa per fare le domande giuste. Finito tutto ci incontriamo per caso nei cessi della sala stampa, entrambi lì con l’intenzione di prendere aria dopo una giornata enorme. Lui si tira un po’ d’acqua in faccia, io lo stesso. Saranno tutti quei lavandini o forse i pessimi odori emanati da quello stanzone, fatto sta che mi sembra di essere tornato allo spogliatoio del campo di rugby, dopo la partita e prima del terzo tempo, quando riesci a godere della fatica.
Nel pomeriggio ricevo decine di messaggi, anche di gente che non sentivo da anni o che in qualche modo segue le gare. La cosa più divertente sono i pareri, i consigli, perché nessuno è d'accordo con gli altri e in un certo senso hanno tutti ragione: c’è quello che ti dice “Guarda anche un po’ noi, non solo Vera”. Un altro suggerisce di parlare “Meno inglese”, per non sembrare snob. Oppure anche “Non cercare di dire sempre la figata, guarda come fa Mattia Pasini”. Io sono soprattutto contento, mi sono divertito. La sera, prima di lasciare il circuito, mi ritrovo con buona parte dei giornalisti davanti all'hospitality Aprilia, che lancia la Tuareg che correrà nei rally. Chiedo consigli, idee. Mi dicono che sono andato bene e alla fine decido, un po' controvoglia, di fidarmi, di accettare uno spritz - Campari, perché in Aprilia sono veneti e certe cose le sanno - e di prenderla come è andata. Dalla TV di casa ho registrato la puntata ma forse, per stavolta, eviterò di guardarla, perché avere un buon ricordo di questa cosa può essere meglio di avere un'idea molto precisa di come sia andata davvero.
Alla fine l’unica cosa davvero fondamentale sono riuscito a farla: quando è così devi goderti il momento, assaporalo. Potrebbe succedere ancora e potrebbe non accadere mai più, ma non è questo il punto e non lo è mai stato. Il punto è prendere quel pallone cascato da un albero e giocarci un po', poi prendere un aereo. E pianificare un altro viaggio.