Si va verso la più italiana delle soluzioni immaginabili: la Nazionale azzurra è sul punto di essere affidata a Claudio Ranieri, una stimata figura a cui il calcio nostrano proprio non vuole concedere il privilegio della pensione. Un anno fa, dopo aver salvato il Cagliari, l’allora 72enne allenatore annunciava il suo ritiro dal mondo del calcio per dedicarsi alla famiglia e alla propria vita privata. Poi a novembre arrivò la chiamata disperata della sua Roma, e di cuore disse sì, con la promessa di arrivare al termine della stagione e poi farsi davvero da parte.
Nei mesi successivi, complici anche gli ottimi risultati, Ranieri è stato tirato per il colletto dalla dirigenza giallorossa per convincerlo a restare, acconsentendo a mantenere se non altro un ruolo di consulente. Che adesso diventerà un doppio ruolo, perché anche la FIGC ha deciso che è lui il nome su cui puntare per salvare la Nazionale dal disastro. I media sportivi lo indicano come la prima scelta del presidente Gravina, a dispetto di un ventaglio di possibilità alternative tutt’altro che scarso.

Ci sarebbe molto da dire, sulla gestione di questa transizione sulla panchina azzurra. A partire dal surreale esonero di Spalletti, annunciato da lui da solo stesso in conferenza stampa, e che lo stesso sarà in panchina questa sera contro la Moldavia. Il suo erede designato è senza dubbio un allenatore molto stimato e di grande esperienza, anche se andrebbe considerato come lo status di Ranieri sia diventato quello di allenatore di culto solo negli ultimissimi anni. Di certo non era ritenuto tale dai tifosi della Juventus a fine anni Duemila, o da quelli dell’Inter dell’annata 2011/12.
Il fatto che oggi questo tecnico, tradizionalmente ritenuto uomo da piazzamento e non da trionfo (il campionato vinto col Leicester è un’eccezione), sia così stimato dal mondo del calcio italiano è già di per sé molto singolare. Ma se sulle sue qualità umane e professionali c’è poco da discutere, non ci si può non interrogare sulla scelta di affidare la panchina della Nazionale a un allenatore che a ottobre compirà 74 anni, che è già formalmente ritirato e che peraltro si dovrà dividere tra Coverciano e un incarico dirigenziale alla Roma.
Optare per un tecnico veterano non è necessariamente sbagliato: la trasformazione della Spagna da squadra bella e perdente a corazzata del calcio globale è avvenuta anche grazie alla scelta come ct, nel 2004, del “Grande Vecchio” Luis Aragonés, che fu l’artefice della vittoria europea del 2008. È però bene tenere presente che il tecnico iberico, ritenuto già molto in là con gli anni al momento della sua nomina, all’epoca aveva solo 66 anni, otto in meno di Ranieri.
La prima scelta della FIGC denota innanzitutto un problema culturale dell’Italia, prima ancora che del suo sistema calcio: l’incapacità non solo di guardare al futuro, ma anche al presente. È chiaro che non è possibile costruire un progetto sul medio-lungo periodo con un ct così anziano, e che difficilmente nei prossimi anni emergeranno nomi migliori per la panchina azzurra. Scegliere una figura molto amata ed “ecumenica” come Ranieri significa innanzitutto mettere a tacere per un po’ le critiche e rimandare ulteriormente quelle riforme necessarie per ristrutturare dalle fondamenta il calcio italiano.
È quindi un modo per evitare di mettere in discussione ancora una volta il posto di Gravina alla FIGC. In sella dal 2018, il presidente federale è stato magistrale nella gestione del consenso politico che il suo ruolo richiede, ma non è riuscito minimamente ad affrontare i problemi strutturali del sistema, da quelli tecnici a quelli economici, fino a quelli più sociali (come la lotta alle discriminazioni). La sistematica incapacità di assumersi la responsabilità di decisioni e progetti conduce a guardare necessariamente a un profilo come Claudio Ranieri, non per colpe o demeriti di quest’ultimo, ma per ciò che rappresenta. L’ex tecnico della Roma è nei piani della FIGC essenzialmente per una ragione: la situazione è disperata, e l’ultimo caso di un club italiano in una situazione simile ha scelto Ranieri e si è risollevato.
La visione progettuale dei dirigenti non va più in là della mera mimica e dello sguardo sulla stagione appena conclusa. È facile pensare che, un anno fa, il nome di Ranieri non avrebbe potuto essere preso seriamente in considerazione, e questo è il problema: la scelta odierna è emotiva, se va bene, od opportunistica, nel peggiore dei casi.
Si dirà che, al momento, non ci sono grandi alternative, ma non è così. Tra i tecnici italiani svincolati figurano Thiago Motta, Francesco Farioli e Raffaele Palladino; c’è l’opzione di Stefano Pioli, attualmente all’Al-Nassr, così come quella del ct dell’Under-21 Carmine
Nunziata. Certo, nessuno è un nome particolarmente eccitante e molti vengono da stagioni poco positive, ma il problema è anche valutare l’adeguatezza di un ct sulla base degli ultimi mesi della sua carriera, invece che sulle sue idee e sul progetto più ampio della federazione.
Forse ci si dimentica come sono nati i progetti vincenti delle nazionali dominanti degli ultimi anni. Vent’anni fa la Germania è stata completamente rivoluzionata da ct con scarsa esperienza come Klinsmann o sconosciuti come Löw; la Francia è tornata a vincere il Mondiale con un profilo non proprio irresistibile come Deschamps in panchina; l’Argentina campione del mondo è stata guidata da un esordiente assoluto come Scaloni; la Spagna che ha conquistato il titolo europeo un anno fa è allenata da De la Fuente, uno che dal 2013 ha guidato solo le selezioni giovanili delle Furie Rosse. Queste squadre hanno vinto perché affidate a persone giuste al di là del nome e del curriculum, perché avevano alle spalle un progetto tecnico valido e coerente, e perché alle fondamenta c’era una struttura di formazione di primo livello. All’Italia manca tutto questo, e non saranno Ranieri - o Conte, o Mancini, o Ancelotti - a risolverne i problemi con una bacchetta magica.
