A Jesi, città natale di Roberto Mancini, poco dopo la vittoria degli Europei a luglio è stato disegnato un grande murales dedicato all’allenatore della Nazionale. E’ stata scelta una parete libera di un palazzo vicino al campo sportivo del San Sebastiano, dove il Mancio, da bambino, ha iniziato a giocare a pallone. E’ alto, molto grande, e ovviamente celebrativo. Ora che l’Italia ha perso con la Macedonia del Nord e non andrà al Mondiale, mi chiedo che senso abbia avuto realizzare quell’iconografia. Non perché ritengo sia necessario cancellare l’11 luglio 2021 o l’immagine di Mancini come allenatore-sportivo-personaggio, perché non si può dimenticare l’affetto e la stima per un risultato storico come l’Europeo vinto soltanto per un goal al 92’. Ma ecco: è proprio perché non si tratta soltanto di un goal al 92’ che bisogna castigare Mancini e rivalutare le nostre parole, il nostro atteggiamento, la nostra mentalità. E’ lì, nei mesi dopo la finale di Wembley, non a Palermo, che si è rinunciato al Mondiale. Pareggiando con l’Irlanda del Nord e con la Svizzera, con la comunicazione degna di un film di Bergman tra la Federcalcio e la Lega Serie A che si è arrivati a questo punto.
Dopo l’eliminazione dal playoff per Qatar 2022, l’allenatore di Jesi merita la gogna pubblica per tanti errori, soprattutto caratteriali. Lo insegnano pile di libri scritti sulla leadership e la motivazione che per qualsiasi opera pratica, serve innanzitutto la testa. L’Italia e Mancini invece si sono persi nella retorica spensierata del post Euro 2020, quella del pullman scoperto a Roma, del mister a La caciotta, di Barella in after e, soprattutto, di “avendo vinto l’Europeo è impossibile non andare al Mondiale”. Una frase che hanno pensato in molti fra i tifosi e avevano ragione. Ma chi non doveva pensarlo era proprio la squadra, e in primis il suo commissario tecnico, quel leader signorile e competente che però, in questi mesi, ha sbagliato tanto come professionista quanto da essere umano. La presunzione di essere i più forti solo per le sculate di Londra (perché per vincere, lo insegnano tutti, ci vuole anche culo, ma sempre di culo parliamo) hanno reso l’Italia del calcio molto più sicura di sé, protetta da una coppa vinta e da un progetto tecnico apparentemente granitico. Ma non era e non è mai stato così né in Serie A né in Nazionale.
Mancini aveva bisogno solo di un risultato per certificare il suo ottimo lavoro nei tre anni da commissario tecnico e, in questo senso, anche un quarto di finale o una semifinale a Euro 2020 sarebbe andato bene. L’Italia e Mancini invece si sono ritrovati in mano una coppa internazionale con la prospettiva di poter dimostrare di meritarsi la qualificazione ai Mondiali facendo le cose secondo le regole, con ordine, certificando una maturità rispettabile e annullando ogni tipo di retorica. Al contrario, da italiano, Roberto Mancini si è montato la testa, è stato testardo e ha utilizzato la coppa come scudo contro ogni forma di perplessità: da agosto a oggi, chi avrebbe potuto dire qualcosa contro la Nazionale? Chi avrebbe davvero potuto dubitare dei campioni d’Europa? Un processo non era contemplato, propaganda totale pro Azzurri. Mancini e i giocatori sono stati intoccabili per la stampa e l’opinione dominante per mesi, anche se tutti sapevamo che quest’Italia pur essendo qualcosa di interessante (persino affascinante) era acerba e incompleta per essere vincente.
La sua è la retorica del vincente per caso, perché chi è un vero vincente – e lui, tra l’altro, con 28 titoli vinti fra campo e panchina, lo è – non si siede sulle pile di complimenti dei giornali (paraculi) a guardare la coppa. Anzi. Mancini avrebbe dovuto programmare il piano per Qatar 2022 con maggiore accortezza, non dare nulla per scontato, lavorare come se l’Europeo non fosse mai esistito e migliorare gioco e dettagli. Anche perché non è vero che abbiamo vinto la competizione grazie al gioco, non è vero che abbiamo vinto perché il nostro calcio è migliorato. Non è vero che abbiamo vinto perché abbiamo cambiato mentalità. E questo risultato scadente contro la Macedonia del Nord (ripetiamolo: 67esima nel ranking FIFA), lo dimostra.
Mancini è come l’Italia. Che pianifica i migliori acquedotti e poi piange per la siccità. Che crea nuovi progetti imprenditoriali con i debiti delle gestioni precedenti. Che esalta le operazioni di Mario Draghi e tiene pronto il coltello per farlo fuori. Mancini è come Milano, che costruisce grattacieli a impatto zero e non riesce a scendere dal tasso critico di inquinamento. Che pianifica riqualificazioni urbane ovunque e la criminalità è di nuovo un problema sociale. Con la figura dell'altra sera, Mancini ha rappresentato l’italiano medio, bravo a nascondere le sue incertezze e difficoltà dietro al primo successo personale buono. Ecco perché è piaciuto a tanti: perché in molti, come lui, hanno fatto il proprio e poi sono fermati.
Cazzo, sembra un film di Muccino!