“Sono tornato cambiato; è successo qualcosa in quelle ore che continua ad agirmi dentro, a provocarmi uno smottamento. Non capisco cosa…” dicevo, nei giorni successivi, ad amici e amiche davanti a uno spritz, sulla chaise longue della psicanalista, per messaggio a chi mi chiedeva com’era andata a Lipsia. L’EuroGathering of the Pack 2024 si tiene in una palestra poco fuori dal centro. Chi ha costruito l’edificio non ha pensato che quelle pareti avrebbero ospitato qualcosa di epico e nulla avrebbe presagito, da fuori – ma anche appena entrati – le emozioni di chi avrebbe varcato la soglia, del combattimento. Ci presentiamo sulle 8:30. Michele, Andrea, Anthony iniziano da subito a scaldarsi. Un po' di gente è lì che fa stretching. Mi soffermo a guardare un tipo grosso, col cappello da cowboy, la barba lunga, vestito in tuta. Anche lui si sta scaldando con due fruste, dando un ritmo inquietante all’attesa, come i glissati di viola di John Cale in Venus in Furs. Partito da non so dove in Europa, ha dormito in macchina ed è già di fronte a me, con l’espressione keatoniana rivolta alle finestre e il suono delle due fruste sul pavimento. Chissà come dorme uno che la mattina dopo, alle 9:30, dovrà affrontare un combattimento totale/reale con i bastoni? Non posso di certo chiederlo adesso a nessuno dei miei compagni di viaggio. Mi manderebbero affanculo – e giustamente. Frank e Ivan girano per la palestra dando suggerimenti ai loro allievi e salutando chi man mano entra. “Sceglietevi adesso chi volete sfidare, che poi arrivano tutti ed è più difficile”, dicono. E loro si dirigono verso, stringono mani, sorridono e vedendo due tipi con cui parlano, mi dico che sono pazzi a chiedere a quello con la bandana, il teutonico di 130 chili di muscoli. Ivan continua a girare per la palestra che si riempie sempre di più e io mi accodo a Frank. C’è chi corre, chi si prepara con una clava di ferro che ruota con entrambe le braccia, chi muove i bastoni fluidamente, formando figure sinusoidali in aria, racchiude l’infinito in uno spazio angusto, lo spazio dell’ansia da prestazione, della paura. La sento addosso questa paura anche io, ora. Mi immagino di varcare la soglia, combattere, mentre giro con Frank che mi indica i lottatori che conosce. Osserviamo quelli più pericolosi e quelli più ingessati già da come parlano e gesticolano. In tre quarti d’ora la palestra si riempie. La maggioranza sono uomini ma ho contato anche molte donne, di tutte le età, anche se mi sembra di non vedere ultrasessantenni. Un vichingo tedesco con la barba lunga e due braccia impressionanti, braccia che avrei visto annerirsi un’ora dopo dalle bastonate, un armadio di muscoli che a vederlo fa impressione, si mette a petto nudo mentre si scalda; la sua compagna è lì vicino, combatte anche lei.
L’aria dentro la palestra si comprime, dilata, respira di per sé, soggetta a leggi incomprensibili nella nostra quotidianità, come fossimo entrati in una dimensione quantistica del reale. Cerco di registrare dentro le emozioni, di accorciare qualsiasi distanza e sentirmi come loro, sentirmi loro: mi tremano le gambe. Frank è andato a dare gli ultimi consigli ad Anthony; Ivan fa la stessa cosa con Michele e Andrea. Entra Benjamin. All’urlo “Fighters!” (sostantivo neutro, e maschile e femminile) raccoglie in un semicerchio chi combatterà a breve. “Solo voi siete responsabili della vostra incolumità. E di quella degli altri. Nessuno dovrebbe passare la notte in ospedale né uscire con meno neuroni di quelli con cui è entrato. Anzi, speriamo esca ancora più intelligente. Nessuno vi giudicherà se battete (tap, nel linguaggio marziale del corpo significa arrendersi, mettere fine al combattimento, nda)”. A quattrocento e passa incontri, 51 anni, con non so quante operazioni alle spalle, il corpo cicatrizzato dalle bastonate, Benjamin sta dicendo a tutti: è normale avere paura; prendetevi cura di voi – e dell’altro. One rule only: be friend at the end of the day! Maschera in una mano e bastone nell’altra, i partecipanti si mettono in fila, a coppie. Con Ivan e Frank ci sediamo sulle panchine al centro della palestra, prima fila. Quasi tutti europei, mi dice Frank, ma ce ne sono anche due dal Canada, marito e moglie. Una ragazza mascherata a lato, coi dread lunghi, inizia a battere il tamburo. Si entra nel cuore del rito: non siamo più in una palestra di Lipsia ma nell’epicentro stesso della parola “combattimento”, in un altro spazio-tempo, arcaico, che domina le epopee più antiche delle nostre civiltà di sapiens-sapiens; siamo nel racconto della Genesi, con Giacobbe aspettando l’aurora; negli inni del Mahābhārata, nell’agone dell’Iliade. La prima coppia è pronta, varca la soglia che porta all’incontro, incrocia i bastoni e parte. E qui vedo, finalmente dal vivo, la tanto famigerata violenza dei Dog Brothers, quella che fa tremare chiunque si approcci ai loro video, alla loro arte marziale. Il rumore del bastone, dato a piena forza sul corpo dell’altro, riverbera anche sul mio, di corpo. Accade qualcosa di subacqueo tra tutti noi, ognuno dei presenti, una corrente di energia, dettata dal linguaggio marziale più puro. Braccia nere, ferro della maschera da scherma incrinato, quadricipiti viola dalla violenza del bastone sulla carne e uno strano odore di incenso a pervadere l’aria e no, non era incenso, è la frizione tra bastonate date con quella potenza scopro dopo e quando lo si perde, il bastone, la Dbma diventa corpo a corpo, Mma, lotta in piedi a pugni, gomiti, calci; a terra pugni gomitate strangolamenti; arte – marziale – totale, la cui traduzione immediata potrebbe essere: bellezza – violenza – reale. Finiti i due minuti, Benjamin urla Time! (a meno che qualcuno non si sia arreso prima) e chiunque dei contendenti si toglie la maschera, si abbraccia così intensamente che a ripensarci adesso, ho ancora un brivido che mi corre sulle braccia. Come fai ad abbracciare così il tuo aguzzino, la persona che prima volevi e ti voleva massacrare? Thank you, my friend. Grazie di avermi dato questa possibilità. Parlano dei colpi, qualcuno zoppica col sorriso ancora ansimando da prima; gli occhi sono scavati, guardano più in là dei corpi che hanno di fronte, al loro significato. È così che si annulla il nemico? È così che il combattimento più violento che ho mai visto diventa un’unione? È questo meccanismo che spolpa di significato la parola “avversario”? Un avversario non lo abbracci come un affetto grande. Non lo ringrazi per averti spaccato il radio, la clavicola, per i traumi che ti attraversano il corpo.
Certo, ci sarebbe da dire molto sul versante tecnico, sulla preparazione “totale”, che va dal kali filippino al muay thai, passando per pugilato, sambo, brazilian jiu jitsu, su come la violenza più brutale necessiti dell’armamentario tecnico più elegante e austero (i pugili che leggono sanno di cosa parlo, soprattutto osservando il movimento di gambe) ma quanto ha del sorprendente è il prima, il dopo: il legame che si crea nell’aver condiviso un universo di emozioni, di paure, compresso in due minuti di tempo, quello, quello ha dell’inspiegabile. Maschera in latino: persona, Bergman, Tyson, Lipsia, dolore, impegno, sacrificio, brutalità, nuotare nel mare mosso, in mezzo a onde alte tre metri, Ivan, Frank, Michele che affonda nell’avversario, Anthony estremamente tecnico, Andrea che si lancia e finisce in un combattimento a terra, rumore di bastone sulla carne, sulle ossa, odore di incenso, endorfina come risposta alla paura, affetto, branco, fratelli cani, abbracci sorrisi, fendente di angolo uno angolo due, schiocco, rumore, riconoscenza per l’altro, dell’Altro; real, verità, conoscenza. Non riuscivo a formulare un pensiero sulla soglia della decenza; come un frutto della natura percepivo la violenza del combattimento, la potenza della gratitudine. La sintassi della relazione che si instaura tra i Dog Brothers non ha nulla a che vedere col mondo fuori, col nostro mondo, fatto di ingerenza dell’Io io io, questo ragliare nelle relazioni; niente spartisce con la demonizzazione del nemico, il desiderio esposto per la sua non esistenza, niente colleghi e colleghe, niente tossicità, niente culto del proprio vittimismo come arma dialettica che così tante carriere sta facendo decollare su mongolfiere di elio. Non c’è maschile, femminile, gerarchia, classismo, retorica dei media; la menzogna non trova domicilio dentro la realtà del combattimento senza regole, anzi con una regola sola che tra l’altro riguarda il dopo, l’affetto come fine ultimo: be friends at the end of the day. Quanto a me, venire qui, in fondo, e forse già lo sapevo in qualche meandro sopito – di quelli che si dilatano a porte e finestre chiuse, luci spente, nelle ore orizzontali, dicevo, venire qui è stato fare i conti con la mia vigliaccheria nel suo versante più accettato dalla mia comunità: quello di intellettuale. Uso le pupille, i polpastrelli, io scrivo intervisto leggo; certo ho fatto 2000 km di macchina, 24 ore in due giorni per esserci, ma non a combattere, come i miei compagni di viaggio. Non mi sono allenato per un anno o due per 120 secondi, rischiando di passare una notte o più in ospedale. Potevo prepararmi per questo gathering. Sputare sangue sui fondamentali. Implementare con palestra, lotta a terra, pugilato. Fare sparring due tre volte a settimana. Essere nell’arena, pronto a tutto, disposto a perdere molto e a vincere niente. Ma ho avuto paura. Avrei paura anche adesso, a pensarmi sulla soglia del combattimento reale. Perché impreparato, non (ancora) pronto. Ma i miei demoni continuano a starmi di fronte, a mascherarsi da soglie, da fantasmi del passato, del presente. Quelli li posso, li potrei già affrontare, ma – questo ho imparato – per abbracciarli poco dopo, ringraziarli di avermi dato la possibilità di crescere, conoscermi, come ho visto fare coi Dog Brothers, non importa il dolore, le ferite, i punti di sutura, le ossa rotte. Ho capito, finalmente, che non è da vigliacchi avere paura.