Smaltite le grandi abbuffate pasquali e i bagordi di Pasquetta, se siete alla ricerca di un modo per trascorrere due ore piacevoli che richiedano un impegno intellettuale minore di girare uno spiedino sulla griglia alla quarta birra media, bene, vi consigliamo la visione del film Road House. Lo trovate su Amazon Prime Video, alla voce debutto più visto nella storia della piattaforma video di Jeff Bezos, con un esordio folgorante e oltre 50 milioni di spettatori mondiali in due sole settimane. I presupposti, bisogna dirlo, c’erano tutti e non stupisce il fatto che questo blockbuster abbia frantumato ogni record al botteghino. A partire dal protagonista, un Jake Gyllenhaal in stato di grazia non tanto recitativa quanto fisica, imbarazzante nel senso che mette in imbarazzo tutta la popolazione maschile mondiale con un corpo inverosimile, che la scoppiettante e tamarra regia di Doug Liman non esita a inquadrare tre o quattrocento volte in 120 minuti di pellicola. Accanto a lui, distanziati per importanza e ancor più per talento, troviamo l’ex campione Mma, il pacifico, tatuato e muscoloso Conor McGregor (qui al suo esordio cinematografico) e il più morbido ancorché tatuato rapper Post Malone, in un piccolo cameo. Permetteteci una piccola digressione: non è bellissimo quando l'industria cinematografica decide di investire su giovani attori talentuosi e sconosciuti, come nel caso di Malone e McGregor, regalando finalmente loro l’opportunità di brillare in un kolossal che con il solo budget delle camicie utilizzate potrebbe sostenere 123 film italiani? Noi lo troviamo commovente. Tornando alla trama, andiamo ora ad analizzare un prodotto dal ridotto spessore psicologico e dal prepotente spessore muscolare. Promettiamo no spoiler per tutti coloro i quali non l’hanno ancora visto anche se, suvvia, di che spoiler stiamo parlando in una sceneggiatura che un falegname con 30 mila lire la scriveva meglio? Gyllenhaal interpreta Elwood Dalton, un ex campione dell’ottagono di Mma, feroce e invincibile a quanto si intuisce, ora ridotto a disperato lottatore clandestino che nel tempo libero dorme nell’automobile e si disinfetta le ferite di coltello a suon di scotch nel senso di whisky e scotch nel senso di nastro adesivo. Una ragazza, venuta a conoscenza dei suoi pugni micidiali, gli offre un lavoro come buttafuori nel suo famigerato locale, il Road House, luogo in cui il cliente medio è un pluriomicida che brandisce una spranga con la quale dà l'abbrivio a feroci risse, mentre sul palco imperterrita continua la musica dal vivo.
La paga è ghiotta e Dalton accetta, anche se fin da subito deve fare i conti con una Florida che assomiglia di più alle immagini da invasioni di Capitol Hill piuttosto che alla patina di palme e bikini, e che ci ricorda che bella l’America ma gli americani stessi tendono a raccontarsi più simili ai tizi con le corna che assaltano il Campidoglio piuttosto che a fini intellettuali. Dalton però è davvero troppo figo e serafico, e con il suo faccione elastico dalla mascella quadrata attua lo stile Bud Spencer, indolente nell’elargire cazzotti letali. Lo fa inoltre con un’eleganza e un garbo squisiti, tenendo sotto controllo la marmaglia che molesta il Road House. Questi scagnozzi fanno molta tenerezza perché hanno il vocabolario di una cazzuola e l’aggressività arrogante ma innocua di un Carlino a digiuno da giorni e ovviamente prendono schiaffi a ogni piè sospinto. È tutto così lieve e poco credibile, specialmente se come me avrete la sciagurata idea di ascoltare il doppiaggio in italiano, che probabilmente il film fa il giro e riesce a diventare inquietante, proprio come pensare che effettivamente violenti che si ammazzano di botte per uno sguardo ne esistono, ahinoi, eccome. Questo accanimento verso il Road House si capirà presto essere dovuto a un mattacchione miliardario di nome Brent, il quale vive su uno yacht e vuole costruire una strada proprio dove c'è l’infame locale difeso dai pugni di Edwood Dalton a impedirglielo. Poiché, come detto, i suoi uomini ridicoli falliscono goffamente nell’intento intimidatorio, il padre di Brent dalla prigione decide di mandare un proprio fidatissimo sgherro a risolvere la situazione una volta per tutte, quel Conor McGregor principe di raffinatezza che è qui pagato per fare il pazzo totale e dunque, pensiamo noi, per recitare una versione morigerata di sé stesso (si scherza caro Connor che leggi sempre MOW, non ci prendere a pugni come fossimo il buon vecchio Dj Francesco Facchinetti). Da qui in avanti sale il livello narrativo, poiché alla potenza del nostro eroe viene contrapposto finalmente un degno antagonista, in un conflitto che si fa più succoso e che impepa la drammaturgia fino allo scontro definitivo. Aggiungeteci un turbolento amore con una brava Daniela Melchior dagli occhi di ghiaccio, uno sceriffo in pensione corrotto, una valigia di soldi e qualche battuta memorabile tipo “Non credo di essere l’eroe della storia” e avrete molti dei motivi della riuscita di quest'opera. Road House è insomma un lavoro godibile di cui decisamente non si sentiva la mancanza, per il quale è richiesto l’impiego di due neuroni (uno in più delle espressioni facciali di McGregor) perfetto però per trascorrere un paio d’ore a intercettare alcuni orologi pazzeschi che sfilano appesi ai polsi dei protagonisti picchiatori, i quali a loro volta li scagliano a velocità supersoniche in violente scazzottate che non sempre ne permettono il riconoscimento. Infine, poiché ci ascriviamo senza esitazione al gruppo “bimbi di Jake Gyllenhaal”, assistere allo scontro fisico apparentemente pari di questo quarantaquattrenne con un grande lottatore come il fighter irlandese ci impressiona, senza parlare poi della “competizione” attoriale perché chiaramente non sussiste. McGregor, l’abbiamo già detto, fa il pazzo e gli riesce benissimo. Siamo sicuri che sia una di quelle persone che è molto meglio avere al proprio fianco piuttosto che nemiche. E noi non siamo diventati nemici dopo questa recensione, non è vero Conor?