“Chi glielo fa fare?” è la domanda che mi ha accompagnato per gran parte di queste settimane. “Non hanno paura?”, mi chiedevo guardando i video, parlandone in giro, anche con esperti di arti marziali. Effettivamente, se dovessero dirmi il 17 marzo si tiene il raduno annuale europeo dei Dog Brothers a Lipsia, dove mi aspettano due minuti (due) di combattimento reale con bastoni di ottanta centimetri e del peso di duecento, trecento grammi, avendo addosso minime protezioni come guanti da hockey e maschera da scherma, risponderei: cosa si vince? Niente. Si rischia solo, nel migliore dei casi, traumi muscolari per arrivare a fratture multiple; si mette in gioco tutto il corpo: la clavicola, il ginocchio, il braccio e per due minuti, centoventi secondi, l’eventualità di farsi un soggiorno di mesi in ospedale non è poi così bassa. Si vince un premio in denaro? No, anzi, ti paghi tutto di tasca tua. Allora un trofeo, una targa, un cazzo di souvenir con due bastoni incrociati e il simbolo dei Dog Brothers? – almeno sul piano simbolico bisogna, pensavo tra me e me, portare qualcosa a casa. Ma l’unico souvenir sono le vergate sul corpo e no, non ci sono vincitori e vinti, premi di nessun tipo. Poi mi sono ricordato dei video ed effettivamente il cerimoniere dice sempre all’inizio degli incontri: No judges, no referees, no trophies, one rule only: be friends at the end of the day!
Ci deve essere qualcos’altro. C’è qualcos’altro dietro, continuavo a dirmi, qualcosa che non risponde ai principi che coordinano la realtà che conosciamo e viviamo. Mentre riflettevo su cosa porti uomini e donne ad andare a combattere, ho ripreso in mano Black Tulips di Vitaliano Trevisan. U must c with your own eyes, frase ricorrente detta da una donna vicina che ha fatto scattare all’autore la voglia di recarsi in Africa di persona e la stessa frase continuava a rimbalzarmi così tanto dentro, da decidere di partire alla volta di Lipsia. Dovevo vedere con i miei occhi. Capire il perché di molte cose.
C’erano parole da ampliare nel mio dizionario privato: verità, violenza, paura, gioia, onore, rispetto, arte marziale, combattimento. Ecco, non pensavo di tornare a casa cambiato, commosso, entusiasta, colmo di ammirazione; non pensavo di riconsiderare il significato di “comunità”, “tribù”, “amicizia”, capire che in questo gruppo la parola “nemico” non esiste e “avversario” è insufficiente a definire qualcuno che combatti con una violenza inaudita ma che abbracci grato e ringrazi di cuore ti abbia dato la possibilità di metterti alla prova.
Cosa sono i Dog Brothers, Ivan? “Siamo una tribù, un gruppo piccolo,” risponde Ivan Reboli (quarantasette anni), primo Full Dog italiano, nomenclatura che nel loro gergo significa aver fatto tanti gathering (una quarantina, nel suo caso) con armi diverse dal semplice bastone singolo. Con il suo accento bergamasco dalle vocali chiuse ma dal sorriso che ha l’apertura alare di un’aquila, Ivan mi ha raccontato, mentre passeggiavamo per una Lipsia gelida, il mondo dei Dog, la loro fratellanza. Lo fa da trent’anni, prima faceva altre arti marziali ma è alla verità che tendeva, all’applicazione reale di quanto aveva imparato. Ogni sua parola, sorriso, è guidato da codici antichi, di quei codici che pare siano persi nella notte dei tempi, ingemmati nella morale delle leggende e delle narrazioni popolari. Era reduce da sei combattimenti giusto poche ore prima. Un loro fratello ha il cancro. Hanno combattuto per lui, quel giorno, scrivendo sul proprio bastone il suo nome. Glielo mandano in ospedale, credo. Si sono fatti la foto di gruppo per dirgli: siamo con te in questa lotta. Mi racconta il loro universo prima che io lo veda di persona. Sono l’unico a chiamarlo Ivan: per tutti gli altri è Kuma Dog, Kuma. Ognuno ha il suo nomignolo ed è con quello che si chiamano e si riconoscono.
Come nei piccoli villaggi, nelle piccole comunità? “Sì,” e si mette a ridere. “Esattamente. Anche lì non conta chi si è diventati, se persone importanti o altro, tutti chiamano tutti, sindaco compreso, per nomignolo. La stessa cosa accade qui”. Parliamo della dialettica spettacolare delle Mma, gli chiedo com’è possibile stabilire legami così autentici con persone con cui ti sei battuto violentemente. Capisco, grazie alla sua ferma gentilezza, che non esistono avversari qua, men che meno nemici. “Io ringrazio l’altro perché mi dà la possibilità di combattere. Una volta uno mi ha regalato una maglietta e l’unica cosa che potevo offrire era me stesso in combattimento,” aggiunge.
Non solo riconoscere l’altro ma addirittura ringraziarlo di esserci è la base con la quale si costruisce una comunità: primo insegnamento.
Ci sono i testosteronici, mi racconta, quelli che vengono per fare i duri ma li vediamo una sola volta, fanno un gathering e basta. Vuoi le bastonate e il dolore, vuoi che è difficile sopraffare gente che si allena tutto il tempo per fare questa cosa, chi non entra nello spirito dei Dog Brothers non può diventare uno di loro. La via è semplice: ci si allena duramente, ci si iscrive al gathering e si combatte non una, non due, ma quante volte sono necessarie. Ancora non basta, però. Bisogna entrare nel branco. Accanto a noi, Frank Olonese (quarantuno anni), Sharingan Dog, esplode di simpatia, con l’accento sardo trapiantato nel milanese. Questo giro non partecipa attivamente: porta un suo allievo, Anthony. L’anno prima si è rotto una clavicola. Recuperato da poco, quest’anno fa lo spettatore. “Sai quanti maestri, fenomeni del kali e della lotta ci sono in Italia? Guarda in quanti siamo qui,” dice ridendo, non senza un pizzico di provocazione. Anche lui, Full Dog, mi racconta la prima volta che è venuto a questo tipo di raduno, dieci anni fa. Di come è cambiata la sua idea di arte marziale, il modo di combattere, testandosi nei gathering con il consueto corollario di vergate che gli segnavano il corpo. “Non ero così bravo col bastone come pensavo dieci anni fa,” dice ridendo. Adesso insegna full contact stick fighting, lo pratica, si mette alla prova ogni volta che può. Mi racconta, ridendo, le ferite che ha collezionato anno dopo anno, combattimento dopo combattimento.
Ridere delle proprie ferite, secondo insegnamento.
E si ride tanto, ci si racconta, Frank ci legge il menu di un ristorante italiano che ha fotografato prima, dove si mischiano regionalismi italiani culinari a piatti che nessuno di noi ha sentito. Mi confida del mondo marziale, dei dissing tra istruttori. Nessuno di quelli con cui discute animatamente, però, ha fatto mille chilometri per mettersi alla prova e venire dove siamo noi, anzi loro, i presenti, come presenti sono stati anche gli altri dog che non sono qui quest’anno ma che questo viaggio l’hanno percorso attraversando l’Italia e mezza Europa. Nessuno, tranne me, si lamenta del viaggio, della schiena, delle undici ore di macchina; nemmeno Michele che ha guidato per essere qui la prima volta. Michele: istruttore di Kali Filippino, tecnica pugilistica, close combat, ha studiato a fondo le arti marziali negli ultimi vent’anni perseguendo un solo obiettivo: l’efficacia, la verità – massimo comune denominatore di ognuno di chi ha scelto di venire qui. Per questo ha preso lezioni di pugilato con campioni italiani intercontinentali. Per questo ha voluto salire sul ring tante volte. A cinquant’anni, ha deciso che era venuto il momento di provare a testarsi coi Dog Brothers, grazie anche agli allenamenti con Ivan Reboli. La maggior parte dei “guerrieri da palestra” qua non ci vengono. Discutendo con lui, cosa che faccio da anni ma in questo viaggio mi è ancora più chiaro, capisco che per raggiungere la verità, l’unica via è entrare nell’arena, rischiare molto – terzo insegnamento. Gli altri due esordienti italiani sono Andrea (classe 1988), praticante di varie arti marziali tra cui Taekwondo, Wing Chun, che ha conosciuto pochi mesi fa Ivan, iniziando ad allenarsi con lui; Anthony, trentacinque anni, con una bella collezione alle spalle di varie arti marziali, tra cui Jeet Kun Do e Krav Maga. Si allena da tempo con Frank e quest’anno ha preso la decisione di mettersi alla prova.
Andiamo tutti insieme alla festa che danno i Dog in una palestra appartenente a uno della tribù. Tanti sono reduci da una riunione e dai combattimenti del pomeriggio a porte chiuse, riservati solo a chi è diventato Dog, non agli esordienti. Il “nostro” gruppo – dico “nostro” perché sento di essere anche io parte, grazie all’accoglienza di Ivan e Frank, anche se penso di essere più uno Shih Tzu che un Dogo Argentino – cammina compatto per il centro di Lipsia. Alcuni non si sono mai visti e qualcosa mi dice che si risentiranno presto, e spesso. Lo scenario della palestra è da film anni Ottanta: uomini e donne in tuta, scalzi, con birra in mano e cartoni della pizza a lato, ridono, chiacchierano, qualcuno riposa. A vederli non sembrano “pericolosi”, anzi per la maggiore pare di essere in un dormitorio di ingegneri. Ivan e Frank ci fanno strada tra pacche sulle spalle e saluti in inglese. Andiamo verso la meritata birra prima che ci fermi Benjamin Rittiner per dirci, con l’accento svizzero-tedesco, buongiorno e ci versa tre dita di whiskey in un bicchiere come benvenuto. La prima volta che lo vedo dal vivo. È simpatico, sorride tantissimo, fa battute in tedesco con i suoi, in inglese con qualche intercalare italiano con noi. Mi guardo meglio attorno e vedo, come se avessi stropicciato gli occhi, le ferite botte camminate zoppicanti dietro al sorriso e alle birre in mano di chi mi sta attorno; un tipo greco passa con una bottiglia di raki offrendola a tutti. Capisco come ci si sentiva in guerra, la sera, dentro una tenda, tutti insieme. Benjamin chiacchiera, saluta, versa da bere a tutti. È da anni che guardo i suoi video. È una leggenda nel mondo delle arti marziali. Sembra un essere umano estremamente affabile (chiacchierandoci dopo, scopro che lo è); ma l’ho visto in azione ed è la cosa più vicina all’incubo che conosco quando diventa Lonely Dog, tesi confermata da tutti i combattenti. Ha la precisione di un chirurgo, l’agilità di un gatto e la forza di un orso. Affonda nell’avversario come il martello di un fabbro medievale. Ho passato ore e ore a guardarmi i suoi video, gli insegnamenti, i tutorial.
“La gente, Benjamin, guardando i video dei Dog Brothers, vede pura violenza, una rissa coi bastoni. Come fai a spiegare la bellezza di questa arte marziale?” Sorride. Insieme chiacchieriamo di vita, conoscenza, paura, arte e scienza. “Io adoro il nuoto sincronizzato, la bellezza dei movimenti, risponde così alla mia domanda. Ma quando stai nuotando in un mare mosso, in mezzo a onde di tre metri, non puoi fare nuoto sincronizzato. Devi nuotare diversamente, c’è tutto un altro movimento del corpo, devi anche sopravvivere. Anche lì c’è bellezza e io quella bellezza la vedo”. La violenza, certo, c’è, aggiunge dopo, però l’arte marziale è l’unione di marziale (combattimento, violenza) e arte: bellezza. Con la stessa precisione che usa nei bastoni ha definito l’essenza stessa di questa strana arte marziale. Nuotare nel mare mosso, in mezzo a onde alte tre metri.
Benjamin, Ivan, Frank, Michele, Anthony, Andrea, tutti loro mi hanno parlato di autosuperamento, conoscenza – di verità. Hanno iniziato tutti, continuato tutti, per un’autentica ricerca della verità in quello che fanno.
Mentre gli esordienti erano già andati a casa, assieme a quasi tutti gli altri, avendo bevuto niente e mangiato leggero in attesa dell’incontro del giorno dopo, me ne sono tornato in albergo con Ivan e Frank, facendomi raccontare i loro incontri, l’evoluzione della Dog Brothers Martial Arts, questa Mma con bastoni e protezioni minime. Ho chiesto a tutti che rapporto avevano con la paura. Mi hanno risposto a parole, hanno descritto cosa sentivano ma io sono qui per vedere with my own eyes i corpi in azione e quelli non mentono. Mancano poche ore all’Eurogathering of the Pack 2024.
I versi di Keats, “Beauty is truth, truth beauty – that is all / Ye know on earth, and all ye need to know”, forse inizio davvero a comprenderli ora, a farli suonare dentro come in un accordo, a mezzanotte passata, tornando da una palestra, a Lipsia, grazie a questa strana tribù, dopo quasi vent’anni che li so a memoria.
Strano il percorso della conoscenza, mi dico, prima di addormentarmi.