Djovokic si muove sul Centrale di Wimbledon come tra le mura di casa. Ha un obbiettivo: portare a casa il Grande Slam, vincerle tutte quest’anno, tutte quelle che contano, e non fare prigionieri.
Matteo Berrettini entra in campo con la tensione del mondo intero sulle spalle, cammina lento, dall'alto dei suoi due metri. Trema davanti al re, e davanti a Wimbledon, ma gioca tre ore di tennis fenomenale, porta a casa il primo set, rimonta break, strappa turni in battuta, vince un tie break, ansima fatica e non si arrende mai.
Sul prato sacro del tennis mondiale, sotto gli occhi di tutti, gioca anche se stesso, l’anima, il cuore, la testa. Tutto dentro braccia e gambe, racchetta, scarpe e palline.
Perde. Ma la storia, questa storia, comunque gli appartiene.
È una sconfitta, chiamiamola con il suo nome, pur arrivando dopo una cavalcata trionfale fatta di sole vittorie. Matteo Berrettini è il primo italiano in 144 anni di Wimbledon ad essere arrivato a giocarsi una finale, l’unico, quello che ricorderemo. Perché la storia si dimentica solo di chi non la scrive, di chi non c’è stato, seppur sconfitto, e di chi non ha tentato imprese più grandi delle proprie possibilità.
Non si dimentica di uno come te, Matteo. Di un classe 1996 che su quel campo da tennis, immenso e solitario, prova tutto, gioca tutto e quando è il momento di perdere, perde tutto.
Ritira il premio del secondo classificato tra le urla della folla che lo ringrazia per un divertimento, e per un livello di agonismo che da tempo non vedevamo. Tra gli applausi c'è anche quello del suo rivale, che difficilmente regala complimenti: "Hai una brillante carriera davanti a te - gli dice Đoković - giochi un grande tennis, sei un vero martello, e ne ho i segni sulla pelle".
Gli sorride, perché nel tennis così si fa: si combatte come gladiatori per minuti che sembrano ore, e per ore che sembrano giorni. Si esulta e si soffre per un singolo punto, per un colpo capace di ribaltare tutto. E poi, quando la battaglia è finita, ci si rispetta.
E in un giorno così, in una finale da Davide contro Golia, il rispetto viene prima di tutto. Perché Matteo non ha avuto paura e chi ha coraggio la storia la scrive anche nelle sconfitte. Arriverà un giorno in cui non ci saranno più un padrone di casa e un ospite inatteso. Un vincitore annunciato e un prevedibile sconfitto. Verrà un tempo in cui su quel campo saranno alla pari, sportivi immensi a scrivere pagine di uno sport che è rimbalzi e cadute, break e contro break.
Funziona così il tennis: quando pensi di averlo capito, cambia. Quando tutto è deciso, una sola palla, un solo errore, rivoluzionano ore e ore di gioco già concluso. A Wimbledon il migliore, quello capace di cambiare davvero le sorti un singolo game, è stato un extraterrestre serbo di nome Novak Đoković, al meglio della sua forma fisica e mentale, ma Matteo Berrettini è riuscito in qualcosa che nessuno si sarebbe aspettato da lui in questo sacro torneo.
Ha avuto il coraggio dello sfidante, di chi si gioca tutto, e di chi la tensione delle imprese la scarica mostrando il lato migliore del proprio lavoro. Con un tweener alla Roger Federer, il colpo da maestro in mezzo alle gambe che gli abbiamo visto assestare nel secondo set, dimostra che il futuro è lì, è già scritto.
Perché un colpo del genere lo si fa senza tecnica, senza pianificazione. Lo si fa di disperazione, lasciando a bordo campo tutta la paura. E sta scritta lì la storia del tuo domani Matteo, non in questa sconfitta che sa di impresa, perché solo con questo coraggio continuerai a infrangere record e stregarci tutti.
Come con un tweener sul Centrale di Londra contro Novak Djokovic in finale di Wimbledon. E chi mai ci avrebbe sperato a una cosa così.