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Lewis Hamilton, le colpe di Monaco, Schumacher, il razzismo e il futuro: "Io in pista a 40 anni?"

  • di Giulia Toninelli Giulia Toninelli

4 giugno 2021

Lewis Hamilton, le colpe di Monaco, Schumacher, il razzismo e il futuro: "Io in pista a 40 anni?"
Il Re è tornato. Dopo un weekend da dimenticare a Monaco, il sette volte campione del mondo si presenta a Baku in splendida forma, pronto per riprendersi la leadership del mondiale, oggi nelle mani di Verstappen. E tra razzismo, politica e lavoro di squadra, Lewis mette sul tavolo anche le carte del suo futuro

di Giulia Toninelli Giulia Toninelli

Il Lewis Hamilton di Monaco, spento e polemico, sembra essere completamente sparito in questo inizio di weekend a Baku. E' tornato il sette volte campione del mondo che conosciamo bene, pronto a riprendersi la leadership del campionato che al momento appartiene a Max Verstappen, avanti di 4 punti. 

In molti a Montecarlo avevano criticato le parole post gara di Hamilton, che aveva scaricato le colpe del settimo posto sulla squadra. In conferenza stampa a Baku il britannico ha invece ritrattato la sua opinione, che a mente fredda risulta più lucida e ponderata: "Nella foga del momento non si dicono sempre le cose migliori. Penso che la critica costruttiva sia sempre una buona cosa ma meglio se detta a porte chiuse. Sappiamo che avremmo potuto fare meglio, anche io ero parte del processo decisionale, ma miglioreremo per il futuro". 

Il futuro, a cui Hamilton guarda senza paura ma con la consapevolezza di poter ancora dare tanto, in questo sport e fuori. Ci sono progetti al di fuori della Formula 1 per Lewis, e il campione non lo ha mai nascosto, ricordandolo anche in un'intervista rilasciata al Corriere della Sera: "Spero francamente di non correre a 40 anni. Ci sono talmente tante cose che voglio fare che sarebbe difficile. Ma nella vita l’evoluzione è talmente rapida da spiazzarti. Per esempio non mi aspettavo di divertirmi tanto quanto mi sto divertendo in questa stagione". 

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Cose che però non riguardano la politica, precisa Lewis: "Non sono per niente bravo in politica! Cerco solo di dare il mio contributo, di trovare il modo di far arrivare dei messaggi - ha spiegato al Corriere della Sera - Per essere sicuro che mio nipote di 5 anni, e quelli della sua generazione, non vivano quello che abbiamo vissuto noi. Che trovino un mondo più aperto". 

La lotta al razzismo rimane per lui un tema di fondamentale importanza e, con ogni probabilità, uno degli aspetti su cui si baserà il suo impegno sociale post-ritiro. Impegno in parte "ispirato" dall'incontro con Nelson Mandela: "Avevo 23 anni, vivevo sulle montagne russe e non ero preparato per un incontro così importante. Se potessi vederlo ora gli chiederei dove e come ha trovato la forza di uscire di prigione senza provare rabbia, risentimento, odio. Come ha fatto a prendere un tè con i giudici e le guardie che lo avevano incarcerato". 

A rendere orgoglioso Lewis del suo team è anche l'impegno della squadra su questo tema, fondamentale per tutti e non solo per lui: "C'è un impegno serio. Un controllo continuo anche dei partner con i quali lavoriamo, per rendere il nostro sport più inclusivo. Per far sì che aumenti la presenza femminile e delle minoranze. Ma una cosa è parlare, l’altra è agire. Sono due fasi distinte". 

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Da molti Hamilton è stato descritto come un vero e proprio leader all'interno del team, anche se recentemente due personalità del mondo della Formula 1 vicine a Lewis hanno messo a confronto il rapporto di Hamilton con la squadra con quello dell'altro sette volte campione del mondo di F1: Michael Schumacher. 

Il primo è Nico Rosberg, che ha avuto il piacere di correre in squadra con entrambi, conoscendoli da vicino. Il secondo è Jock Clear, ex ingegnere di Schumacher e di Hamilton, oggi in Ferrari. 

In modi diversi entrambi hanno ribadito lo stesso concetto: Schumacher aveva un modo unico di approcciarsi alla squadra, un talento naturale, capiva come motivare le persone e non dimenticava mai nulla. I compleanni, gli auguri, le festività. C'era per tutti e questo atteggiamento creava un rapporto unico, e rendeva Michael il vero trascinatore del gruppo. Lewis ha dovuto studiare questo processo, imparando negli anni quello che a Schumacher veniva invece naturale, e prendendosi un posto da leader all'interno del team per cui il Kaiser non ha mai dovuto lottare. 

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