L’inizio e le cadute a Magione che tutto lasciavano presagire tranne che Valentino Rossi sarebbe diventato Valentino Rossi. E, poi, tutta una carriera raccontata in poltrona. No, però, una poltrona normale, ma quella del PoretCast di Giacomo Poretti. Chi è? E’ Giacomo di Aldo, Giovanni e Giacomo. Lui, Valentino Rossi, invece, lo conoscono in ogni angolo di mondo, non solo per lo sportivo che è stato, ma pure per l’ironia che esprime e il personaggio che è capace di essere. Risultato? Un’ora e sette minuti di gusto autentico, con tanto di Giacomo che, solitamente nei panni del perculatore, questa volta è sembrato pure un bel po’ emozionato. “L’abbiamo rincorso per due anni, ma lui va troppo veloce” – ha raccontato presentando Valentino Rossi e leggendo l’ormai famosissimo endorsement di Brad Pitt.

Pantalone largo, maglietta bianca e giacchettina chiara, oltre la solita (s)capigliatura, il Dottore ha rotto subito il ghiaccio. Niente motori, però, ma Lucio Corsi come primo argomento. “Avevo piacere di conoscerlo – ha detto il Dottore – E quindi ci siamo organizzati con Cremonini, Pecco, Vietti, Morbidelli, Bezzecchi e gli altri per andare insieme al concerto di Jovanotti: quando ci muoviamo siamo in tanti, l’incubo degli organizzatori. Stasera, però, sono solo con la Francy”. La compagna, la mamma delle due bimbe che oggi vivono un papà famoso senza, probabilmente, sapere ancora chi è stato Valentino Rossi. Uno che, come gli hanno ricordato sul palco, è a fianco a Jordan, a Senna, nell’Olimpo degli sportivi. “E’ stato bello per questo – ha raccontato – si è creata una alchimia, un qualcosa per cui la gente s’è appassionata e aspettava la domenica dopo per vedere un’altra corsa. E’ stato un onore, è stato bello e non me l’aspettavo. Le gag? Belle, perché erano caz*ate messe su così con gli amici: la bambola forse è stata la più bella perché è stata la prima, ma ce ne sono state tante. Eh sì, un pirla naturale: mi sono sempre trovato bene. Già iniziare a correre nel Motomondiale è un sogno che si realizza, per me era come entrare nella puntata di un cartone animato. Pensa poi vincere, però mi sembrava come se i piloti dopo le vittorie fossero tutti un po’ scarichi e allora abbiamo pensato di fare qualcosa. Da lì sono nate queste stupidaggini, cose da bar di Tavullia. Di provincia. Dove sono cresciuto io”.
Fino ai trenta si è incoscienti
“La moto è uno sport molto pericoloso, che fa paura. Però i primi anni neanche ci pensi e vuoi solo fare il massimo. La paura che hai è quella di sbagliare e rovinare la gara. Poi dopo i trenta cominci a pensare di stare un pochino più attento. Nelle moto essere coraggiosi fa la differenza, ma fino a quando qualcosa non ti va bene e allora cominciano a venirti molti dubbi”. Il pensiero corre subito all’infortunio del Mugello, nel 2010, con Vale che – forse senza dirlo esplicitamente – mette il segno rosso lì sul momento di svolta della sua carriera. “Con quel coso dentro la gamba pensi che se succede qualcosa sono cavoli – spiega – cominci a pensare che hai un ferro nella gamba. Io ho avuto talmente tanta paura, poi, della frase di Enzo Ferrari sui piloti che perdono mezzo secondo quando hanno figli, che non ne ho avuti fino a che non ho smesso. Ma col senno di poi ti dico che non è vero”.

Andare con la moto per strada fa paura. Ma pure guardare le corse da casa…
Il rapporto con la paura, quindi, spiegato con la semplicità di chi ha attraversato tutte le fasi. Fino a arrivare a dire qualcosa che oggi, Valentino Rossi babbo e uomo maturo, riesce a dire col sorriso: “Andare in moto per strada è pericoloso quasi quanto correre in pista. In pista vanno tutti dallo stesso verso, in strada sei poco protetto e ci sono anche gli altri con le macchine”. Solo che adesso che non fa piùil pilota Valentino Rossi ha ammesso d’aver scoperto qualcosa che prima non poteva neanche immaginare: guardare le corse fa paura. “Guardarle da fuori – ha scherzato – cambia molto. Mentre lo fai sei sempre concentrato, parti da casa concentrato e dopo il warm up hai una fase in cui ti caghi addosso, ma è paura di sbagliare. Poi, però, cambia tutto quando metti la tuta e vai nel box, lì diventi super concentrato e alla paura non ci pensi. Invece guardandole da casa, adesso, sono sempre tesissimo. Anche perché lì ho mio fratello, i miei amici dell’Academy, quindi la soffro. Però devo dire che l’adrenalina e il gusto della MotoGP non ha eguali. In nessun’altra disciplina del motorsport”.
Io ero il figlio di Graziano e mi sono sempre chiesto quanta differenza fa il talento
“Ho sempre voluto essere un pilota di moto e spesso mi sono chiesto se sarei diventato un tennista forte o un calciatore forte se Graziano avesse fatto il tennista o il calciatore . Insomma, tante volte m’è venuta la domanda su quanta differenza fa il talento. Ma la risposta è boh”. Un dubbio per raccontare un inizio, il rapporto con il babbo che, da ex pilota, lo portava a giocare sempre e solo “a tema racing” e poi quella scelta fatta da piccolissimo: essere un pilota. “Per uno sportivo di alto livello – ha proseguito Vale – dare tutta la vita a quello sport lì è ciò che fa la differenza. Fare tutta la vita quello. Io con le moto, altri nei loro sport. Woods, nel Golf, sapeva già fare determinati colpi a tre anni”. Crescerci, quindi, magari con una figura di riferimento che fa scattare la scintilla. Il padre nel caso di Valentino Rossi che, però, s’è trovato in qualche modo a essere quella figura per il fratello Luca. “Forse mio fratello con me è stato più stressato di me con Graziano. Comunque il rapporto tra genitore e figlio, a parte gli scherzi, diventa difficile quando il figlio diventa uno sportivo di alto livello. Nelle moto, in più, c’è il fattore paura per cui un genitore sì vuole vederti vincere, ma vuole pure evitare che ti fai male. Quando partivo per le gare, ad esempio, avevo mia mamma che aveva paura e la vedevo. Adesso che vedo mio fratello sulla griglia capisco di più mia mamma. Però oh, non sono pericolose solo le moto”.
La MotoGP è uno sport di squadra anche se in moto sei da solo
Il divertimento, il gusto, ma pure la consapevolezza, andando avanti con la carriera, che è un lavoro quello che si sta facendo. Valentino Rossi lo spiega raccontando del rapporto con Graziano e del fatto che, soprattutto negli anni della MotoGP, s’è “chiuso” nel suo gruppo di lavoro, “lasciando fuori” persino il babbo su tutto ciò che riguardava le corse. “In moto sei da solo – ha detto – ma quando non sei in moto hai la tua squadra, la tua gente, il tuo gruppo e quindi la MotoGP è, paradossalmente, uno sport di squadra. Uccio? E’ sempre stato con me. Con lui abbiamo un po’ inventato un lavoro: l’assistente del pilota. Adesso ce l’hanno tutti “un Uccio”. Ci siamo divertiti da matti: immaginati due ragazzini di vent’anni in giro per il mondo da soli. Quella di andare in giro con Uccio è stata una grande idea. Adesso che fa il team manager della mia squadra non viene più con me, ma mi manca. Cacolo, mi manca perché poi è uno che è molto divertente”.

Le macchine? Sono più bravo con le moto
“Da piccolino Graziano, pensando che fosse meno pericoloso, ha spinto un po’ di più per farmi correre con le quattro ruote. Ma poi per correre con i 100cc ci volevano cento milioni di lire e allora lì Graziano ha detto ‘no, no, ricominciamo con le moto’. E’ stata la scelta giusta, anche se poi m’è rimasta questa cosa di correre con le macchine. Anche se sono più bravo in moto”. E’ lì che Vale ha raccontato la sua prima volta con una 125cc e le ruote alte. A Magione e con un paio di cadute che hanno fatto venire seri dubbi sulle effettive capacità. “Dopo abbiamo deciso di continuare e è andata bene così – ha scherzato ancora Vale – Ora, a proposito di giovani, abbiamo l’Academy. All’inizio eravamo molto frenati perché comunque se cresci dei piloti prima o poi diventano tuoi avversari, ma poi abbiamo sbloccato e siamo andati avanti. Anche perché allenarsi con altri piloti è un grande stimolo”.
Il Sic era troppo simpatico: un romagnolo sanguigno
La radice di quell’Academy che ha portato tanti piloti nel Motomondiale e oggi ne schiera ben quattro in MotoGP, però, ha i ricci di Marco Simoncelli. Sì, parlando del Sic la voce di Vale cambia un po’, ma senza retorica: “Il Sic era troppo simpatico. Troppo. Un romagnolo sanguigno – racconta – Era sempre una comica stare insieme. Quando è successo quello che è successo è stato veramente uno shock. Perdi un amico e sei stato parte dell’incidente. Ero proprio lì in quel momento. Quello me lo sono sempre…cioè, mi è dispiaciuto sempre. Pensato di smettere? No, mi sono fatto un esame di coscienza: non ho potuto fare niente. Poi, certo, è rimasto sempre il grande peccato di aver perso un amico vero. Eravamo insieme dal 2006, poi nel 2008 abbiamo vinto il mondiale entrambi. Da rivali le cose tra noi erano un po’ cambiate, eravamo sempre amici, ma era più complicato ecco. Però continuavamo a allenarci insieme, a fare cose insieme. Poi da lì è nata l’Academy e dal 2013 aiutiamo i piloti italiani a arrivare in MotoGP e a vincere in MotoGP”.
I piloti sono tutti delle teste di caz*o e quando diventano forti peggiorano
La frase da titolo Valentino Rossi la regala nel bel mezzo dell’intervista: “I piloti I piloti sono tutti delle teste di caz*o e quando diventano forti peggiorano”. Non fa nomi, ma è dell’Academy che in quel momento sta parlando, solo che in quell’affermazione c’è piena benevolenza, oltre che piena consapevolezza. “Gestirli è difficile – aggiunge – però è un gran gusto. Fino a quando ho corso stavamo insieme veramente sempre, dalla palestra a ogni attività. Ora un po’ meno, più che altro gestisco i loro allenamenti in moto perché io non vado più tutti i giorni in palestra: mi alleno ma a casa. Loro adesso fanno una vita incredibile: oggi per correre in MotoGP devi essere un atleta vero e fanno un lavoro pazzesco, almeno quattro o cinque ore di palestra al giorno. Si sta attentissimi anche a mangiare perché bisogna restare leggeri, soprattutto nelle categorie piccole. Comunque quando stai con i giovani diventi più giovane anche te. Io mi diverto anche a fare il tifo, poi se ci sono i ragazzi dell’Academy le corse mi piacciono ancora di più”.

Il momento giusto per ritirarsi? Non sono la persona giusta
L’età, diceva qualcuno, è solo un numero. Valentino Rossi l’ha in qualche modo sempre pensata così e l’ha ribadito anche dalla poltroncina di Giacomo Poretti, che gli aveva appena chiesto quale fosse il momento giusto per ritirarsi. “Non sono io la persona adatta a rispondere – ha scherzato – Però dicono che il momento giusto è quando sei il numero uno. Io in quel momento c’ho pensato, ma mi sono detto che volevo rischiare: magari potevo essere il numero uno ancora. Conosco piloti di moto che hanno smesso perché le mogli gli hanno rotto i cogl*oni fino a quando non hanno smesso. Io mi sono detto: corro fino a quando non ce la faccio più e vado piano. Ora corro in macchina perché dopo aver vissuto tutta la vita nelle corse avevo bisogno di dare un seguito. Di svegliarmi la mattina e fare ancora il pilota: sono contento della scelta che ho fatto perché smettere proprio da un anno all’altro secondo me è tosta”.
Gli sportivi oltre i motori? Ronaldo, quello vero, ma anche…
Il primo nome che Valentino Rossi fa è quello di Ronaldo. Poi aggiunge: “Ronaldo quello vero. E’ lì, con lui, che sono diventato interista di più”. Il “fenomeno”, quindi, è lo sportivo che lo ha emozionato di più, prima ancora dei grandi nomi della Formula 1, dei piloti americani nelle moto o di Jordan nel basket. O anche dell’italianissimo Alberto Tomba. “Li ho conosciuti più o meno tutti, sia Jordan che Maradona che tutti quelli che ho detto – ha raccontato – Con Jordan è stato bello perché quando sono arrivato lì nel mio motorhome a Valencia, c’era lui tutto piegato, incastrato nel mio motorhome perché la testa gli toccava. Bello. E poi era emozionato perché le moto piacciono a un sacco di gente. Sinner? Ci sentiamo, ma dal vivo non ci siamo mai conosciuti, ma il mio tennista preferito è stato sempre Federer, con lui a volte ci sentiamo”.
Lin Jarvis venne a Tavullia a licenziarmi
“Il grande capo di Yamaha mi chiamò e mi disse che avremmo dovuto vederci. Venne a Tavullia e un po’ immaginavo cosa volesse dirmi – ha raccontato Valentino Rossi – praticamente mi licenziò, perché c’era da prendere Fabio Quartararo. Ma io sapevo di avere quaranta anni e chiaramente capivo la situazione, ma lo presi in contropiede chiedendogli di non lasciarmi a piedi e farmi avere comunque una Yamaha, magari da Petronas visto che comunque quel team andava forte. Non è riuscito a dirmi di no”. In quell’anno, il 2021, Valentino Rossi s’era però imposto di capire seriamente se avesse potuto fare ancora qualcosa di buono. “Doveva valerne la pena –ha spiegato – poi è arrivata Assen. In gara, in bagarre con Bastianini, sono caduto e ho fatto un bel botto e lì mi sono detto che avrei smesso. Caso vuole che proprio in quei giorni con la Franci abbiamo saputo che sarebbe arrivata Giulietta. I segnali che ci instradano? Sicuramente qualcosa c’è e è sotto gli occhi di tutti, ma non penso che riguardino queste cose. Queste cose capitano e basta. La scaramanzia? Io lo sono in maniera estrema, è quasi un problema. Ora che non corro più in moto un po’ meno, ma prima tanto davvero. Comunque fare uno sport ti porta a essere scaramantico di brutto. Lo psicologo? Non c’ho mai provato, ma potrebbe essere bello. Però oh: se vuoi essere scaramantico devi esserlo per bene. Io, ad esempio, la domenica prima della gara ascoltavo Bollicine di Vasco, ma per scaramanzia ho veramente fatto di tutto. La scaramanzia è una bega”.

La lotta con Lorenzo a Barcellona 2009 è stata la goduria estrema
Con oltre venticinque anni di carriera – e da leggenda – i momenti indimenticabili sono stati tanti. Ma la goduria estrema, dice Valentino Rossi, è stata una: nel 2009, la battaglia con Jorge Lorenzo. “Lì è stato come due giocatori di poker all’ultima mano – ha raccontato – abbiamo bagarrato di brutto e l’ultimo giro è stato pazzesco, ma alla Curva 8 mi ha preso un pelo di margine e ho capito che alla 9 non sarei riuscito a passarlo. Però dall’anno prima con Stoner avevo in testa che forse c’era un altro punto in cui si poteva provare all’ultima curva e mi sono detto che avrei provato. Mi sono buttato dentro sperando che cadesse anche lui se fossi caduto io, anche perché dopo una gara così ci stava di cadere tutti e due. Dentro la curva ho tolto una marcia, dalla terza alla seconda, e quando ho sentito che ero dentro è stata una goduria. Da lì al traguardo saranno stati sei secondi, ma indimenticabili. Lì anche il commento di Guido Meda è stato di livello”.
E su Marc Marquez?
Niente. Alla fine dell’ora e sette minuti vorrete morire. O, al limite, prendere per il collo Giacomo Poretti.