I feel the need, the for speed. E’ il tormentone di quelli cresciuti a pane e TopGun e è, probabilmente, qualcosa che rappresenta molto di più della semplice frase di un film. Chi ha provato a spiegarlo, ancora una volta, è Marc Marquez, che dopo il suo documentario “All In”, ha dato alle stampe anche un libro in cui mette nero su bianco il suo modo di intendere le corse. Quelle corse che per uno come lui sono la vita.
Racconti, quelli di Marquez, che finiscono inevitabilmente per contenere passaggi che spiegano tutto, ma tutto proprio, in pochissime righe, come pezzi più luminosi di un grande mosaico che hanno la capacità di farti andare gli occhi lì, esattamente lì, invece che sul disegno di cui è parte. “So benissimo che il prossimo grave incidente potrebbe non solo porre fine alla mia carriera sportiva, ma anche condizionarmi per il resto della mia vita” – dice Marc proprio in uno di quei passaggi. Non è spavalderia, si chiama consapevolezza. Consapevolezza che correre e provare a vincere sono semplicemente la risposta a un bisogno. Che è brutale e primitivo, che sarà pure autolesionista e pericoloso, ma che è prima di tutto incontrastabile. “Marc Marquez è così”, disse una volta Valentino Rossi, ritrovandosi dentro il paradosso del nemico che ti conosce, e ti riconosce, meglio di chiunque altro. Adesso che Marc Marquez è proprio così lo dice in un libro anche lo stesso Marc Marquez.
“Se vedo un muro, lo attraverso. E 'così semplice per me – aggiunge ancora l’otto volte campione del mondo, quasi mostrando sofferenza nel rendersi conto di non essere abbastanza capito - Non importa quante volte ci vorranno per riuscirci o quanto forte colpirò la testa contro quel muro, non mi fermerò finché non lo avrò attraversato il muro . Costi quel che costi. Costi persino la fine. Vincere è sempre stato il mio obiettivo e non cambierà mai. Ho bisogno della massima quantità di adrenalina nel minor tempo possibile. E ho bisogno di stare al limite”.
Spingersi al confine e poi oltre. Pur sapendo che spesso “l’oltre” rappresenta un ignoto da cui in pochissimi sono tornati. Ok, pensarla così sarà pure da matti, sarà pure da persone che apprezzano poco la vita e le fortune che questa vita gli ha messo in tasca, ma ci vuole rispetto. Come per ogni libertà, compresa quella di chiedere troppo alla sorta. Di sfidarla oltre. Di non voler capire che sempre arriva il momento in cui basta e che, quando non lo si capisce, il basta arriva lo stesso. Tutto quello che si può chiedere a Marc Marquez, proprio dopo aver letto il suo libro, semmai è di tenere conto che in pista ci sono anche gli altri. Che la sua ossessione e la sua fame (invidiabile per alcuni e suicida per altri) possono essere la radice di sofferenze che a quel punto non sarebbero più solo personali. Ma questo Marc Marquez sembra saperlo benissimo. Così come sembra perfettamente consapevole che, al netto della rabbia e della delusione, anche adesso sarà lui che dovrà adattarsi. Ispirandosi, magari, proprio a quell’ex idolo e oggi nemico che ha saputo vincere con le 500 e poi con le MotoGP: “L’ultima volta che sono riuscito a guidare veramente bene è stato a Jerez nel 2020, poi è successo quello che è successo. Ma sono io che devo adattarmi alle idiosincrasie della nuova MotoGP. Cioè a ciò che proprio non lo fa sentire bene in sella e capace di guidare come vorrebbe”.