“Di una cosa sono contenta: oggi ci sono molte più donne nel paddock. Quando ho iniziato io nel 1985 si contavano sulle dita di una mano. Alla Paris-Dakar eravamo addirittura solo in due, io e Judith Tomaselli”. Navigatrice nei rally prima, manager poi, Matilde Tomagnini è salita in moto quando aveva 9 anni. Una Kawasaki di quelle vere, mica una minimoto. Vedendola passare, suo papà Carlo, che aveva portato ad Alassio la Nazionale di Bearzot l’anno del titolo, svenne. Quella fu una delle tante imprese di Matilde che ha fatto delle sfide il suo stile di vita. Brand Manager Chesterfield per l’Europa, quando era poco più di una ragazzina; a capo della sponsorizzazioni del team ufficiale Yamaha, nella mitica Paris Dakar degli anni di Cyril Neveu e Giles Lalay, Ciro de Petri, Edi Orioli e Franco Picco; impegnata nel Motomondiale, negli anni gloriosi in cui, se volevi vincere in 125 e 250cc dovevi salire in sella ad una Aprilia, e scelta da Lapo Elkann per dare una seconda vita al brand Abarth, Matilde Tomagnini è, insomma, una vera e propria istituzione nel mondo dei motori.
Hai lavorato con i più grandi campioni del nostro sport, da Max Biaggi a Loris Capirossi a Valentino Rossi, ma anche Michele Alboreto in Formula 1. Cosa hanno in comune tutti questi piloti?
Che sono persone uniche. Non è mai facile gestire i campionissimi, perché questi ragazzi si ritrovano ad avere una montagna di soldi e di successo quando sono ancora giovanissimi. Improvvisamente, intorno a loro spuntano parenti e amici, per cui fanno fatica a valutare le persone, a capire di chi fidarsi e di chi no.
Com’era Valentino Rossi quando è arrivato in Aprilia?
Mi stupiva perché parlava come un adulto, con una lucidità e un’intelligenza incredibile. Avrà avuto 16 anni… si sedeva accanto a me e mi diceva: “ricordati, che non fidarsi è sempre meglio che fidarsi! L’unica cosa che mi dispiace è non essere riuscita a fargli capire quanto era deleterio per lui la figura di Gibo Badioli che lo voleva proteggere non si sa da chi. Lo vedevo, ne parlavo con Graziano, ma Vale lo ha capito quando era ormai troppo tardi. Tra noi è rimasta però una grandissima stima reciproca. Con Vale e la VR46, siamo comunque sempre in contatto. Anche oggi.
Come lo vedi adesso?
Io non credo che sia finito. Sono le moto che sono cambiate. Vale ha vinto tutto ed è difficile cambiare stile quando per anni ha trionfato. Guarda Marquez, non è solo lui. È stato un anno fermo, lui deve recuperare ma anche la moto deve fare un passo avanti perché i competitor nel frattempo sono andati avanti.
Al Mugello Marquez ha dichiarato che non correrebbe per un 13° posto. In un FantaMotoGP è ipotizzabile che Marc possa smettere prima di Valentino se non torna il Marc-ziano del 2019?
Entrambi sono uomini vincenti, ma sicuramente Marc è uno che può dire basta prima di Valentino perché sono caratteri diversi. Non ho mai lavorato con Marc, ma da quello che si vede, potrebbe essere così. In questo momento sta facendo una fatica pazzesca, in attesa di un completo recupero fisico. Anche la Honda deve riprendere lo sviluppo, ma giapponesi possono colmare il gap tecnico.
Dove vedi Valentino Rossi tra 10 anni?
Valentino è nato pilota, ha il fisico, la testa, non vede la sua vita senza la gare, per questo credo che dopo le 2 ruote, lo vedremo correre in auto. Non si vede in altre vesti, non credo farà neanche il team manager del Team VR46!
Guardando ai vari scenari del mondiale, sei contenta della crescita di Aprilia?
Felicissima. Il problema in Aprilia adesso sono i piloti. Ci vogliono dei gran piloti anche per sviluppare una moto, altrimenti ci impieghi di più. Adesso tutto è pronto per Andrea Dovizioso, l’unico che è stato in grado di tener testa a Marquez per 3 anni consecutivi.
Sarà ancora il Dovi di un anno fa?
Bisogna vedere se ne ha ancora voglia. Credo che lo scorso anno abbia avuto delle occasioni per continuare a correre. Quando stai fuori un anno, non è facile ricominciare e tornare allo stesso livello, ma Andrea resta comunque un ottimo pilota.
Con la promozione di Remy Gardner in MotoGP, Petrucci potrebbe essere interessante anche per l’Aprilia.
Lo vede bene e poi ci sono affezionata a Danilo. Petrucci è uno che fa squadra. Ma secondo me, l’Aprilia avrebbe bisogno di un pilota di punta.
Dalle 2 alle 4 ruote. Sorpresa dell’approdo di Maurizio Arrivabene in Juventus come nuovo amministratore delegato?
Ancora non c’è l’ufficializzazione. Cosa manca? Al di là dei rapporti personali, essendo uscito da Ferrari, quando ti muovi all’interno del Gruppo è fondamentale come ti sei lasciato. Arrivabene ha sempre avuto un ottimo rapporto con Andrea Agnelli. È stato stagista a Losanna.
Hai lavorato con lui 11 anni.
Esatto, per 5 anni abbiamo addirittura condiviso l’ufficio. Conosco meglio lui che mio fratello! (scherza, nda). Quando ho lasciato Philip Morris per Aprilia mi ha scritto una lettera bellissima che tengo ancora nel cassetto dei bei ricordi.
Può essere l’uomo giusto per la Juventus?
Maurizio è vulcanico, imprevedibile. Ingombrante, ma con un cuore enorme. In un ambiente nuovo, sposta comunque gli equilibri: destabilizza o fa rinascere la squadra. Il suo punto di forza è la determinazione. Lo è sempre stato: ha una lucidità incredibile sugli obiettivi da raggiungere. Arrivare alla Ferrari era il suo sogno. Ha impiegato 30 anni e ce l’ha fatta. Bravissimo. Ricordo ancora le chiaccherate alla macchinetta del caffè al mattino a Losanna. Mi raccontava che aveva sognato di diventare il team principal in Ferrari!
Lui Marlboro, te Chesterfield. C’era rivalità?
I nostri budget erano talmente diversi che lui aveva una pressione enorme, mentre io, che avevo un 1/10 dei suoi soldi, avevo più autonomia. Con poco siamo riusciti a vincere tantissimo. Addirittura, a fine ’93, Pernat ci fece entrare da Misano in poi, l’anno in cui rimase paralizzato Wayne Gardner, un anno prima dell’accordo che avevamo. Entrammo per un dollaro e vincemmo con Ruggia e Reggiani su Capirossi, il favorito per il titolo, sponsorizzato Marlboro. Un trionfo. In Aprilia abbiamo vinto tanto, sono stati anni bellissimi con Ivano Beggio, un visionario che aveva fatto un reparto corse all’avanguardia. Peccato che non guardava tanto al budget.
MotoGP, Formula 1, ma anche la mitica Paris-Dakar. Cosa ti è rimasto nel cuore?
Nel cassetto dei bei ricordi ci sono dei bellissimi momenti, ma forse la Paris-Dakar in Africa resta irripetibile. L’ho seguita per 7 anni, dal 1985 al 1992, gli anni in cui non ti lavavi per 20 giorni, avevi a disposizione solo mezzo litro d’acqua al giorno e poi non si mangiava mai: scatolette e solo spaghetti alla sera che ci cucinavamo al bivacco. Il ricordo più bello? Quando abbiamo costruito la scuola per i bambini ad Agadez, in Niger, attraverso un libro fatto con le foto di Gigi Soldano. Con i soldi guadagnati con la vendita del libro, un’azienda di Bergamo costruì la scuola. E poi quando caricavamo i camion di assistenza. Il terzo restava sempre un po’ vuoto, così portavamo giù scarpe, vestiti, materiale per la scuola…
E poi la sfida in Fiat, a capo delle corse Abarth e Alfa Romeo.
Nel 2004 fui chiamata da Lapo Elkann per riesumare il brand Abarth, motore compreso, per il quale avevamo coinvolto Pino d’Agostino, il motorista del 7 volte campione del mondo Michael Schumacher. Nel 2005 Sergio Marchionne ci approvò il budget per il brand Abarth con le corse come propulsore per spingere le vendite, il che significava progettare un motore da 180 cavalli, cosa che abbiamo fatto e c’è ancora oggi. Questa è una bella soddisfazione.
E la prossima sfida?
Sogno di far parte dell’organizzazione delle Olimpiadi Milano-Cortina 2026, e poi comprarmi una barchetta per godermi il mare dove sono nata. Alassio.