In Italia è notte fonda quando l’Aprilia Trackhouse di Miguel Oliveira, improvvisamente orfana del controllo di trazione, lancia il portoghese verso il cielo. La velocità in uscita di curva 4 a Mandalika – Indonesia – non è elevatissima, ma sufficiente per far atterrare Miguel con violenza sull’asfalto e fracassargli il radio destro in più parti. Potrebbe chiudersi qui l’avventura in Aprilia di Oliveira, già a bordo di un volo intercontinentale che lo riporterà a casa, dove si concentrerà sul recupero e sui prossimi passi di una carriera che nel 2025 lo vedrà guidare la Yamaha del Team Pramac. Proprio qualche giorno fa, a Misano, intervistavamo Miguel: abbiamo parlato del suo futuro, di ciò che non ha funzionato con Noale, di molto altro.
Abbiamo parlato soprattutto della sua storia, quella di un bambino di Almada – hinterland di Lisbona – che ogni weekend faceva avanti e indietro dalla Spagna pur di gareggiare in moto. Mentre Miguel, in pista, andava sempre più forte, Paulo - il papà – in autostrada rallentava: c’erano soldi abbastanza, sì, ma per un solo pieno di benzina. Oggi Oliveira, famoso in patria ai livelli di Cristiano Ronaldo, è l’unico portoghese della storia ad aver corso in MotoGP. Nel paddock lo considerano uno specialista del bagnato, ma ha vinto sull’asciutto in solitaria, ha trionfato dopo battaglie all’ultima curva. È il profilo di un campione del mondo (è stato vicecampione nel 2015 e nel 2018, In Moto3 e in Moto2) che, forse, ha solo bisogno di trovare stabilità. Negli ultimi tre anni ha cambiato altrettante moto, è diventato padre due volte, si è trasferito con moglie e figli in Italia. Miguel Oliveira, che parla cinque lingue e all’occorrenza aiuta la mamma in clinica odontoiatrica, debutta sempre con una risposta secca. Poi argomenta, si apre, lascia il segno.
Dai Miguel, non è possibile che tu abbia imparato l’italiano così bene solo stando nel paddock.
“Si sì, è vero (sorride). È stato solo merito del paddock, di gente italiana con cui ho lavorato quando ero ragazzino. Ci sta”.
Più volte hai raccontato che tutti in Portogallo, a parte tuo padre, scoraggiavano la tua carriera da pilota. Quanto è stato difficile arrivare nel Motomondiale?
“Era un sogno troppo lontano, dire ‘voglio arrivare a correre nel Mondiale’ - proprio per il fatto che nessun portoghese ci fosse mai riuscito -era vista come un’idea impossibile. E poi non avevamo riferimenti. Dove corri? In quale campionato? Con che team? Non c’erano portoghesi in nessuna struttura motoristica. La fortuna che ho avuto è che già dagli inizi ho potuto fare il mio percorso in Spagna. Mi sono fatto conoscere in Spagna, dove ho fatto tanti campionati regionali, dopo ho fatto il CEV…alla fine sono diventato un mezzo spagnolo”
Hai una spiegazione del perché ci sia riuscito solo tu?
“È dovuto a due cose. La prima, andavo molto forte. Vincendo, le preoccupazioni sul trovare sponsor e soldi diminuivano. La seconda? In Portogallo non c’era davvero modo di far crescere giovani piloti”.
Tu quando hai pensato che ce l’avresti fatta?
“Mai. C’è stato un momento in cui sono passato dal campionato regionale spagnolo al CEV, un momento in cui sono salito su una moto da Gran Premio, con una struttura importante alle spalle. Lì è diventato tutto un po’ più serio, ma non ho mai avuto la sensazione di dire ‘ok, adesso sono a posto, mi posso rilassare’. Mai”.
Un po’ come Valentino Rossi in Italia, stai aiutando giovani piloti portoghesi a crescere…
“Sì, abbiamo fatto un po’ di tutto. Non abbiamo come gli italiani e gli spagnoli la cultura di mettere un ragazzino sulle moto. In Portogallo questa cosa manca, non è accettabile che un bambino corra su due ruote. Per noi il primo step è stato provare a convincere i genitori che questo sport è sì pericoloso, ma che può essere anche molto positivo per i loro figli. Con l’Oliveira Cup abbiamo comprato una serie di motine uguali e abbiamo organizzato un calendario di gare. Al termine di un lavoro di coaching, sono usciti tanti pilotini che tuttora gareggiano in moto. Qualcuno più vicino rispetto ad altri per approdare in un campionato importante”.
Hai mai pensato di mettere i tuoi figli in moto?
“È un’idea un po’ strana, non per loro ma per me stesso, non credo di farcela (sorride). Il cuore si oppone. Pedro ha dieci mesi, l’Alice (Miguel mette l’articolo davanti al nome proprio, è italiano a tutti gli effetti) ha quasi tre anni…credo sia ancora un po’ presto”.
Sei diventato padre due volte nel giro di poco tempo. La tua vita è cambiata tanto negli ultimi due anni?
“Assolutamente, assolutamente (ride). Il primo figlio è uno shock grande, perché sei abituato a fare un sacco di cose e poi improvvisamente le priorità cambiano e devi fare in modo che a casa sia tutto in ordine, quello è il mio mestiere al di fuori delle gare. Fornire tutto ciò che mia moglie ha bisogno e, poi, fare il lavoro da pilota”.
Cosa non ha funzionato in Aprilia?
“Non è facile individuare il motivo, difficile imputare il tutto ad una sola componente. Sono arrivato in Aprilia con tante aspettative perché il mio obiettivo era fare bene per poi approdare nel team ufficiale. È stata una situazione delicata, perché per la prima volta Aprilia si trovava a fornire le moto ad un team clienti (Miguel fa riferimento al Team RNF di Razlan Razali, con cui ha gareggiato nel 2023, ndr), e come struttura all’inizio non erano ancora pronti per farlo. Poi mi è mancata un po’ la RS-GP 23, che ho provato proprio qui a Misano solo in un paio di run nel lunedì di test dell’anno scorso. Mi trovai benissimo, era più completa. Quest'anno, in un colpo solo, sono passato dal prototipo del 2022 alla 2024. Questo step di moto è stato molto importante, anche perché intanto c’è stato un cambio di carcassa della gomma posteriore. Sommando tutti questi fattori, i risultati non sono stati il massimo”.
Col senno di poi, avresti voluto disputare una stagione completa con l’Aprilia del 2023?
“Il mio obiettivo è sempre stato avere il materiale dei piloti ufficiali. L’anno scorso, quando Aleix e Maverick faticavano, io faticavo ancora di più, perché non c’era così tanta gente nel team che mi guardasse e che mi dicesse dove potevamo migliorare. Sei tu hai un team dedicato ai due ufficiali, che nella prima metà di stagione devono per forza far risultati, tutto il resto scala nelle priorità. Io non sono mai stato la priorità di Aprilia. Questo è il punto, ma lo capisco”.
Andare in Yamaha adesso è una scommessa?
“Non è una scommessa”.
Qui Miguel risponde con tono ancor più risoluto del solito.
Si prende qualche secondo, poi riaggancia: “Se è una scommessa penso sia vinta, perché Yamaha è una grande azienda e ha capito bene ciò che va cambiato nella struttura per essere competitivi. È una questione di tempo, un anno forse due, ma sono convinto che loro torneranno a stare in alto in classifica, come ci hanno abituato per tanti anni”.
Ti fa ancora effetto vedere le tue gigantografie sul ponte 25 de Abril, che collega Almada a Lisbona?
“È diventato normale ormai, una cosa che mi rende orgoglioso. In Portogallo nessuno sapeva cosa fosse la MotoGP, la gente ha cominciato a guardare le corse non voglio dire dal nulla, ma con me hanno costruito questa passione di guardare le gare alla domenica. Quello poi ti porta ad avere più attenzione attorno, più sponsor, cose per cui comunque c’è voluto tanto lavoro”.
Miguel, non fare il modesto: solo Cristiano Ronaldo è più famoso di te in Portogallo?
“Sì, forse sì”.
Ride per qualche istante.
Poi torna serio: “È interessante, perché è una dinamica che va al di là dei numeri dei social, dove ci sono piloti molto più seguiti di me. Eppure quasi tutto il Portogallo ha sentito parlare di me, sa che c’è un portoghese in MotoGP, o riconosce la mia faccia. Per uno che va in moto con il casco, non è scontato che la gente ti riconosca per la faccia”.
Non ti pesa?
“Per niente. Rendere il motociclismo popolare in Portogallo è più importante di tutto ciò che ho conquistato in moto”.
Quanto lavoro hai fatto per proteggere la tua privacy?
“Non tanto. Prima di tutto la famiglia ha capito come proteggermi da certe cose. Quando sei conosciuto eviti di andare in certi posti, di fare certe cose. In nessun momento la popolarità mi ha bloccato la vita. Non devo nascondermi per fare nulla, se devo andare in Portogallo prendo l’aereo e faccio tutto alla luce del giorno”.
Com’è vivere a Verona?
“Da più di un anno viviamo lì e ci troviamo bene. Ci siamo trasferiti anche per stare più vicini a Noale. Sono contento, mi manca un po’ parte della mia famiglia, rimasta ad Almada. In ogni caso, anche spostandomi in Yamaha, al di fuori delle gare io, mia moglie e i mei figli continueremo a vivere a Verona”.
È vero che, da ragazzino, quando andavi con tuo padre alle gare, giravate coi soldi contati e andavate piano in autostrada per risparmiare benzina?
Sorride.
“Si, sì, sì, era proprio così. Cavolo che roba”.
Ti dà fastidio vedere gente che ostenta, quel lato opulento del paddock?
“No, è normale che se tu sei all’élite dello sport vedi orologi, cose che solitamente non sei abituato a vedere. Però comunque diventa parte dell’evoluzione; io andando alle corse in aereo non mi sento più felice di quando andavamo in macchina coi soldi contati. Quella è la cosa davvero importante. A volte credi che qualcosa ti manchi ma poi quando ce l’hai pensi ‘prima ero comunque felice’. Adesso, avendo di più, la mia vita è più confortevole ma non necessariamente più felice”.
E come giudichi il fatto che ogni vostro movimento ormai venga spettacolarizzato?
“Penso si possa fare molto di più. Potevano seguire altri piloti, altre storie, ognuno ha la sua. Sono sicuro che la storia di Jorge Martín sia interessante come quella di Augusto Fernandez. Delle volte il pubblico non apprezza queste storie per via del lavoro che viene fatto qui dentro. È difficile seguire 22 storie diverse in una gara di quaranta minuti. Ma tutto il lavoro all’esterno della gara si poteva fare meglio”.
Si poteva fare prima, intendi?
“Spero che con il nuovo acquisto da parte di Liberty Media si creino nuove opportunità”.
Ti fermi mai a pensare alla strada che hai fatto?
“Delle volte sì, ti viene in mente che anni fa tutto era difficile. Ma lo è anche adesso; le difficoltà che incontravo a 14 anni sono le stesse di adesso, perché lo sport è lo stesso. Magari oggi tutto dipende meno dai soldi, però le esigenze psicologiche che tu ti ponevi a 14 anni sono uguali a quelle di oggi. Se a 29 anni non riesci a battere qualcuno, non riesci ad abbattere un limite, nella mente di un pilota si creano gli stessi meccanismi con cui facevi i conti a 14 anni”
Quanto devi a tuo padre?
“Forse il 70%, il resto lo mettevo io in moto. Lui è stato molto testone; ha spinto, ci ha provato con tutti, ha messo tanti soldi. Senza di lui non ce l’avrei fatta”.