Sono le tre di pomeriggio di un giovedì di settembre inoltrato, a Misano Adriatico sembra debba piovere fino all’eternità. Nel paddock si aggirano persone scombussolate, quasi terrorizzate dall’idea di un cambio dell’armadio imminente, di un inverno che spalanca le fauci, del profumo di mare che evapora e sfuma chissà dove. Joan Mir entra nell’hospitality Honda coperto da un giaccone pesante, il più imbottito del catalogo d’abbigliamento tecnico del Team ufficiale Repsol. La lampo che sfiora il pomo d’Adamo, il cappuccio che – una volta sfilato – scopre un cappellino su cui è inciso un trentasei giallo. Sotto la visiera lo sguardo di Joan è deciso, frizzante, energico, antitetico al grigiume piatto della giornata e alle luci fredde e soffuse che si riflettono sull’argento delle posate. Mentre ci sediamo su un tavolo già apparecchiato per la cena, l’idea che Mir possa aver voglia di dormire per i prossimi quattro giorni scompare. Le premesse c’erano tutte: il campione del mondo della MotoGP 2020, reduce da una gastroenterite e con un figlio piccolo a casa, che affronta un Gran Premio in cui la prospettiva più idilliaca è un decimo posto al traguardo. Un anno fa si sarebbe lasciato deprimere da uno scenario del genere; avrebbe pensato al ritiro. Oggi no, oggi è cambiato tutto. Dalla Honda non arrivano segnali di miglioramento, ma Joan Mir, 27 anni – nato a Palma di Maiorca – è un’altra persona. Non si diverte più, ma continua a sorridere.
Joan, come stai?
“Sono stato male a Misano 1, non ho potuto disputare il weekend purtroppo, però ora va meglio. Ho già ripreso i chili che avevo perso (sorride)”.
Ti aspettavi molto di più dai test del lunedì di Misano rispetto a quello che hai trovato (solo aggiornamenti aerodinamici)?
“Misano è tradizionalmente un test importante perché dopo si parte per l’Asia e non ci sono giornate a disposizione per fare altri test. Non abbiamo ricevuto nessuna modifica radicale, solo dettagli che nel breve periodo sicuramente potranno aiutare. Però ostia, io mi aspettavo un po’ di più”.
Nelle trasferte orientali le condizioni sono sempre particolari; inoltre c’è Phillip Island, la tua pista preferita. Parti con la speranza di riuscire a divertirti un po’?
“Quando vai fuori Europa le gare sono sempre più pazze, perché conosciamo meno a fondo le piste e il meteo è tradizionalmente variabile. Ho proprio voglia di andare lì, di provare a fare un po’ di punti, cosa che ci è mancata ultimamente per cadute, perché a Silverstone si è rotta la moto, perché poi io non sono stato bene”.
È stata l’assoluta mancanza di divertimento a farti pensare al ritiro l’estate scorsa?
“Sì, è stato proprio quello. Ci sono diversi tipi di piloti, io sono qui solo per stare davanti, non mi considero uno che può stare nelle retrovie per tanti anni. Mi alimento di bei risultati, è sempre stato così. Non mi sono mai mancati i risultati, perché in Moto3, Moto2 e MotoGP sono stato veloce sin da subito. Sicuramente questo è il periodo peggiore della mia carriera. È difficile abituare la testa a questo, a non avere una moto competitiva. Non sono mai stato comodo sulla Honda, sin dal primo momento in cui l'ho provata".
Come hai gestito quel periodo?
“È stato molto difficile. All’inizio speravo di poter star davanti, ma dopo metà anno ho capito che non sarebbe stato possibile. Accettare quella situazione è stato complicato, perché pensavo ‘io tutto questo non lo voglio, non sono felice, perché devo continuare a correre senza essere motivato?’. Però poi mi sono anche detto ‘se smetto di correre adesso sicuramente avrei dei rimpianti’. Quella è stata la considerazione che mi ha fatto continuare, e adesso la mia situazione è molto diversa, perché ho accettato la situazione e sto solo aspettando una moto su cui mi trovarmi comodo per ricominciare a spingere e a stare davanti. Sono qui e sento di non poter sfruttare il mio reale potenziale”.
Diventare padre proprio in quel momento ti ha aiutato?
“Molto, molto. Anche per poter dare un esempio a mio figlio. Se da grande gli chiederanno di me, almeno potrà dire ‘mio padre non ha mollato, ha continuato a lottare anche quando avrebbe benissimo potuto smettere’. Perché la mia carriera fin qui è stata molto buona, ma quando mi metto una cosa in testa è difficile togliermela, Ho rinnovato per altri due anni con Honda anche per questo, perché la sfida la voglio portare a termine, voglio vincere. Niente mi potrà rendere più felice di tornare a fare buoni risultati”.
Tuo padre ha un negozio di skate a Maiorca e nel giardino di casa potevi allenarti su una rampa.
“Sì, avevo proprio uno skatepark, gli altri ragazzi della mia età se lo sognavano, venivano sempre a casa mia (sorride)”.
Da lì come sei passato alle moto?
“Lo skate è stata una delle mie passioni di quando ero bambino, andavo molto spesso anche col rollerblade. Provavo tutto di quel mondo, ma sapevo non fosse la mia vera passione. Appena salito sulla minimoto, ho mollato totalmente lo skate. Il mio percorso prima di diventare professionista è stato meteorico, perché quando ho cominciato a guidare le moto avevo 9 anni, mentre nella scuola di Chicho Lorenzo (papà di Jorge Lorenzo, ndr) i bambini della mia età correvano già da 6 anni, giravano tutti i giorni accompagnati dai genitori. Devo dire che dopo tre mesi ero già il più forte della scuola”.
Al secondo anno in Moto3 hai conquistato il titolo mondiale, stessa cosa in MotoGP. Sei uno che impara in fretta, che si adatta rapidamente. È una tua dote innata o sei diventato così da bambino, quando eri costretto a vincere sempre per trovare i soldi che ti avrebbero permesso di continuare a correre?
“Quello ha aiutato, sicuramente, però penso sia una qualità innata. Quando ho cominciato a correre con le minimoto ci facevano fare esercizi in cui piazzavano dei coni prima delle curve, punti di riferimento all’altezza dei quali avremmo dovuto cominciare a frenare”.
Joan Mir, a questo punto, afferra una forchetta dalla parte dei rebbi e punta l’altra estremità sul tavolo, fissando un punto di staccata che precede una curva immaginaria.
Poi spiega: “Io da subito provavo a frenare oltre quei coni, gli altri invece ci mettevano due o tre mesi per staccare dove staccavo io”.
E come ti guardavano?
“Eh, per loro non era bello (ride). Però devo dire che non mi sono mai accontentato di questo talento innato, le persone che mi sono vicine sanno che c’è stato tanto lavoro dietro”.
Da quando hai cominciato a considerare le moto un mestiere?
“Quando sono entrato nella Red Bull Rookies Cup. In quel momento ho pensato ‘se riesco ad essere competitivo qui, il lavoro è fatto".
A proposito di adattamento, in che modo hai cambiato il tuo stile di guida per provare ad adattarti alla Honda?
“È stato molto complesso, perché il mio stile era efficace per la Suzuki e per tutte le moto con cui ho corso in nelle altre categorie. Con la Honda è stata un po’ una prima volta. Puoi adattarti, andare incontro alle esigenze specifiche della moto, cosa che io già penso di aver fatto. Però serve a poco quando non hai grip al posteriore, quando la moto scivola sempre, quando fai il pick-up in uscita di curva e vedi che altri vanno il doppio di te. Io ad esempio con la Suzuki controllavo molto bene il gas, riuscivo a gestire lo spin, per quello arrivavo a fine gara con la gomma più fresca rispetto agli altri, cosa che mi permetteva di fare delle belle rimonte. Cavolo, con la Honda non lo posso fare perché la gomma scivola sin dai primi giri, consumandosi subito”.
Qui nel 2020 hai sorpassato al Tramonto Valentino Rossi - che hai sempre detto essere il tuo idolo - togliendogli l’ultimo podio in MotoGP. Da quel momento in poi hai infilato una serie di grandissime gare con cui sei andato a prenderti il titolo: è stato quello, anche simbolicamente, un momento di svolta per la tua carriera?
“Sì, è stato davvero un punto chiave per la mia carriera. Ero rimasto in ottava posizione per metà gara, poi ho cominciato a girare forte e a recuperare sul gruppo dei primi, composto da Bagnaia, Morbidelli e Valentino. Ho fatto diversi sorpassi, il che non è semplice a Misano. Mi ricordo che alla fine ero quarto, vedevo Valentino vicino all’ultimo giro, in quel momento dentro di me avevo una confidenza che mi faceva pensare di poter sorpassare chiunque. Ovviamente avrei fatto lo stesso sorpasso anche con un altro pilota. Una bella manovra, pulita, nel mio stile, con cui ho aperto una fondamentale striscia di sei podi in sette gare”.
Sogni ancora la Suzuki, quei momenti lì?
“Sì, assolutamente, anche quel momento in particolare. Ma penso se lo sogni anche Valentino, perché sarebbe stato il suo ultimo podio, a Misano, insieme ai ragazzi dell’Academy (sorride)”.
Il duecentesimo podio in top class.
Joan a questo punto scoppia a ridere.
“Cavolo, 200 podi, che roba. Bueno dai, almeno per me è stato bello”.
Correresti gratis pur di avere nuovamente tra le mani una moto vincente?
“Buona domanda”.
Si prende qualche istante di riflessione.
“Quelli che costruiscono moto competitive vogliono esattamente questo, che i piloti vadano lì a correre gratis. Ad un certo punto della mia carriera lo farò, sì”.
Hai mai pagato il fatto di essere così spontaneo, genuino nelle dichiarazioni?
“Sì, a volte mi hanno tirado por la orejas (tirato per le orecchie, ndr). Però per me è molto importante essere chiaro, limpido. Piaccia o no”.