Uno ha i capelli incasinati e ricci, l’altro invece ce li ha lunghi e lisci. Uno è innamorato perso della musica e fa il pilota, l’altro è innamorato perso delle corse e fa il musicista. Uno arriva alle serate di gala vestito come un mezzo rappettaro e l’altro si presenta alla serata dei duetti di Sanremo con Topo Gigio. Di Marco Bezzecchi e Lucio Corsi è come se ci si stesse accorgendo adesso, perché uno è la vera sorpresa del Festival e l’altro la vera sorpresa dei test della MotoGP. Si conoscono? Forse. E il punto di contatto tra loro potrebbe essere Franco Morbidelli, che è amico di uno e pure dell’altro. Ma, Morbidelli a parte, quei due potrebbero essere tranquillamente fratelli per il modo che hanno di essere ciò che sono e che hanno sempre voluto essere: un cantante e un pilota. Poeti, entrambi, anche se con “strumenti” differenti per esprimere personalità speciali. Due, per usare le parole di Corsi, che sono duri pur pensando di non esserlo e, magari, ironizzando pure sul non esserlo nella maniera prevista dal “protocollo del duro convenzionale”. Perché? Perché sono due meravigliosamente normali e altrettanto meravigliosamente eclettici. Bambineschi al limite del romanticismo.
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Quasi due cartoni animati nei rispettivi mondi, solo che con più sostanza dentro dei mondi stessi a cui hanno scelto di appartenere. Anzi no, “appartenere” è un verbo che per due così non ci sta proprio: i mondi in cui hanno scelto di diventare quello che sono. Speciali e normali e contestualmente distanti da ogni forma di omologazione. Roba da fenomeni, insomma. O roba da persone che quel “nosce te ipsum” che apriva l’accesso al tempio di Apollo ce l’hanno così nel sangue da non dover nemmeno stare a aderire. Figuriamoci a provarci. Si conoscono – nel senso che conoscono se stessi - e sanno quello che vogliono. Sin da bambini. Sin da quando uno, a dieci anni e dopo aver provato sport di ogni tipo, non ha capito che la musica e scrivere canzoni sarebbe stata l’unica strada capace di generare felicità e sin da quando l’altro, ancora più piccolo, non ha puntato i piedi per fare il pilota e no il meccanico nell’officina di famiglia. Aiutati, entrambi, da genitori che magari sì avrebbero pure preferito (anche ammettendolo senza remore) futuri differenti e meno “pericolosi”, ma non hanno mai smesso di esserci. Supportare. Sostenere. Aiutare.
Figli lasciati liberi di esprimere l’anima libera con cui sono nati. E che poi di quella libertà hanno fatto una mezza religione anche quando sono arrivati con gli stivali, da rocker uno e da pilota l’altro, dentro i mondi che sognavano, mantenendo, appunto, un modo tutto loro. Semmai ispirandosi agli idoli di una vita, ma mettendoci del proprio. Anche quando quel “del proprio” ha la forma di atteggiamenti surreali, quasi bambineschi e spregiudicatamente provinciali. Sì, sono provinciali tutti e due, romagnolo uno e toscano l’altro, e ci godono ogni volta a ricordare da dove vengono e tutta la strada che hanno fatto per arrivare da dove non ci sono corsie veloci e troppe possibilità. Essenza ribelle e autentica. Piccoli eroi dell’essere semplici e unici in quest’universo di imitatori: interpreti perfetti di quel “diventa chi sei" che ha mandato di matto secoli e secoli di filosofi.
Magari pagandone pure le così dette conseguenze anticipate. Che poi altro non sono che i giudizi degli altri sulla base del niente: prima di conoscere o di capire. Di uno hanno sempre detto che è troppo poco rockstar, troppo poco al passo con la musica d’adesso, troppo poco politico e persino troppo poco bohemien, ma non hanno mai considerato che uno così a Sanremo ci sarebbe arrivato da Lucio Corsi e basta. E con Topo Gigio a fargli da spalla. Fino a esserne la sorpresa. E ripetendo a chiunque che sì, anche uno che è un cantautore impegnato (studiato, istruito, profondo e tutte quelle cose lì che un cantautore deve essere per forza) può essere patito di corse in moto come il più becero frequentatore del bar dello sport. L’altro, Marco Bezzecchi, è stato quasi condannato sin dall’inizio a essere una sorta di erede obbligato del Sic e gli scettici l’hanno pure bollato prima del tempo come uno che è arrivato senza meritare. E anche quando ha meritato non era abbastanza, con Fabiano Sterlacchini, nuovo direttore tecnico di Aprilia, che bonariamente ha raccontato che lui stesso c’era cascato: “di Bezzecchi vedevo l’indiscutibile talento, ma non pensavo fosse così preparato tecnicamente”. Poi ci ha lavorato insieme e l’ha scoperto non solo super capace di tecnica, ma anche di mettersi sulle spalle una squadra intera dopo la scoppola d’essersi ritrovati senza il campione del mondo proprio quando c’era da preparare la moto per il mondiale. Però, come per Corsi a Sanremo, restando chi è: tra una pataccata e una briscoletta nel box. E con l’unica maniera che conoscono quelli che arrivano dalla provincia: faticare più degli altri, trovare la forza di fare più giri fino a devastarsi le mani (che poi le mani raccontano sempre l'anima).
Entrambi, Corsi e Bezzecchi, insegnano - senza elevarsi a maestri e forse pure senza saperlo fino in fondo - che la vera durezza non sta nel conformarsi a modelli d’anticonformismo (sì, è una contraddizione in termini, ma è pure lo specchio di questi tempi), ma nel resistere - con quella leggerezza lì che hanno - all’umana scappatoia del farla facile, scegliendo piuttosto di mantenere la propria autenticità pur facendo parte di mondi, quello della musica e quello delle corse, in cui la comfort zone è rappresentata dai panni e dagli stili già scelti da altri. Leoni in mezzo alle fotocopie. Persino a Sanremo. Pronti alla ribellione senza alcuna violenza, ma anzi con un’aria quasi caricaturale che mostra più la debolezza dei muscoli stessi. A vivere, per farla corta, le loro – le loro e basta – verità. Nelle loro mani, come quelle di Bezzecchi, anche quando sembrano mani che non ce la fanno più.