Eccolo qua, scovato il mistero, il popolo dei social ha deciso. Se la Nazionale negli ultimi dieci mesi ha collezionato figuracce epocali no, non è il risultato di un movimento che ha prodotto il quasi nulla elevato alla potenza: la colpa è di Daniele Adani. È di Lele Adani perché da quando è in Rai porta sfiga.
Tre indizi fanno una prova, e i tre indizi chi Adani non lo sopporta li ha già trovati: la grave eliminazione dal playoff per i Mondiali contro la Macedonia a Palermo, restando fuori dai giochi come in era Ventura, il sonoro 3-0 subito dall’Italia a Wembley nella Finalissima contro l’Argentina, l’umiliante cinquina subita martedì sera dalla Germania a Moenchengladbach, e cinque gol tutti in una volta l’Italia non li incassava da più di settant’anni. Tutti con Adani in cabina di commento o primo opinionista Rai. Ragionamento semplice semplice: se un anno fa l’Italia di Mancini – meritatamente ma per tutta una incredibile serie di situazioni in cui è andato tutto per il verso giusto – ha trionfato all’Europeo riempiendo le piazze e i bicchieri di birra di Barella e compagni con i commenti e le opinioni Rai di Antonio Di Gennaro, Claudio Marchisio, Marco Tardelli, Luca Toni, Milena Bertolini, vari ed eventuali, tutto torna. Chiaro, no? Adani porta sfiga, è evidente.
C’è poi una seconda corrente di pensiero: Adani non è adatto, non capisce di calcio, è stato un difensore non esattamente di gioco educato e, pertanto, che vuoi che ne sappia? Siamo già un passo avanti nello stadio evolutivo: dalla superstizione all’effetto Dunning-Kruger, perché è vero che siamo tutti criticabili nel merito di ciò che facciamo e che il calcio è sufficientemente democratico per dare voce a chiunque, ma insomma, che uno valga uno è un’emerita idiozia anche quando si parla di gioco, pallone, calciatori. Ma questi siamo: passato il periodo dei virologi, mentre l’estate rende meno cool essere esperti di geopolitica, il calcio è esattamente ciò che serve.
Ma Adani – pur estremamente indulgente con Mancini, che fa con quel che c’è e che può ma pare incriticabile per via del “percorso”, e occhio alla parola: ci torneremo – non ha bisogno alcuno di essere difeso. L’accusa di portare male si commenta da sola, quella di non capire di calcio è formidabile per la totale assenza di basi nell’argomentazione, a maggior ragione se si considera che, per un buon quinquennio, nel banalissimo e pallosissimo contesto dell’opinionismo calcistico è stato lui a portare una rivoluzione fatta di conoscenza, competenza e argomenti che l’hanno fatto apprezzare pressoché all’unanimità da un pubblico non vasto ma sicuramente di spessore. Il problema è venuto dopo, ed è l’ingresso negli stilemi della comunicazione divisiva che ora tanto funziona: l’atteggiamento ieratico (possibile però solo quando esiste una folla di potenziali adepti, e nel caso c’era, eccome), l’accentuazione della contrapposizione tra la modernità, la sua, e il paleocalcio, il manto di sacralità su opinioni, le sue, ammantate di filosofia, l’utilizzo parossistico di termini profondi – idea, proposta, percorso – ma ormai deprivati di significato perché abusati, uniformi uniformate per follower e fedeli. Che poi non sia così nemmeno importa: l’immagine proiettata quella è, e del resto follower e fedeli sono la sua fortuna, ma anche il suo limite, come accade a chi (e in questo senso l’approdo in Rai è stata una scelta azzeccatissima) è riuscito a entrare prepotentemente nell’immaginario collettivo tracciando una riga, di qua o di là. E così ecco la Nazionale che, all’unisono, per il commento Rai non perde, ma impara, mentre il pubblico televisivo brucia come un falò. Ecco, magari fosse vero, perché l’Italia ultimamente perde e anche male, ma sul fatto che impari sul serio – si veda la smemorata arroganza di Donnarumma alla fine – è lecito avere più di qualche dubbio.