Venerdì 26 febbraio, si terrà la Milano Boxing Night 2021, un evento trasmesso da DAZN, in diretta dal Palalido - Allianz Cloud di Milano. 5 combattimenti in linea, 3 di questi con in palio un titolo. Loriga vs Esposito per la corona dei pesi welter d’Italia, Prodan e Cristofori per il titolo internazionale IBF dei pesi welter e, infine, il match clou: Daniele Scardina che ritorna dopo un anno, per conquistare la cintura EBU (Unione Europea) dei supermedi, contro lo spagnolo Cesar Nunez.
Una riunione pugilistica di spessore, di stampo puramente italiano, in piena pandemia. A chi dobbiamo accendere un cero votivo, noi appassionati di pugilato, per rendere omaggio di quest’evento?
Perché qualcuno dietro quest’evento, ci sarà pure. È come andare al ristorante, essere serviti con un piatto perfetto, buonissimo, e non domandarsi nemmeno chi lo abbia preparato. Non è che questa serata sia nata per grazia ricevuta: l’organizzazione è targata OPI since '82, un’istituzione nel mondo della boxe. OPI since ’82 è la società di management e promozione del pugilato della famiglia Cherchi, che ha la propria base nella OPI GYM Boxing Club di Porta Romana a Milano.
La bellezza dei Cherchi è anzitutto l’amore che hanno per questo sport. Un amore incondizionato, di pura devozione, che trascende il business. L’altra cosa bella è che sono sia radicati sul loro territorio, Milano, che capaci di calcare palcoscenici internazionali: i loro pugili hanno combattuto (e vinto) innumerevoli mondiali, ma Alessandro Cherchi è il fautore della rinascita del Teatro Principe di viale Bligny.
Alessandro è un classe 85, è giovane e c’ha un modo di spiegarti le vicissitudini sportive che è troppo avvincente. Ci colleghiamo su Skype, lui è nell’ufficio dentro la sua palestra, alle spalle un quadretto della locandina di Arturo Gatti vs Gianluca Branco. Nella zona fit si sta allenando Scardina che è atterrato da Miami nemmeno 12 ore prima.
“Eh, il ragazzo c’ha la testa giusta” mi dice Alessandro.
Spiegaci cosa è OPI since ’82, chi siete, cosa fate.
“OPI è la società della mia famiglia, con mio padre Salvatore Cherchi che è cresciuto dagli anni ’80 sotto l’ala protettiva di Umberto Branchini, uno dei migliori manager del mondo del pugilato, per poi diventare autonomo nel 1992 con la nascita di OPI since '82. I migliori campioni mondiali italiani li abbiamo avuti noi: Parisi, Nardiello, Zoff, Branco, Fragomeni. Tutti atleti che abbiamo costruito noi. Ci lavoriamo io, mio fratello Christian, ovviamente mio padre e nostro zio Franco Cherchi, ex campione indomito e tecnico della nostra struttura sportiva, la OPI Boxing Gym di Porta Romana. Siamo sia centro sportivo, che società di gestione eventi, e soprattutto manager degli atleti”.
Tutti nomi gloriosi quelli che hai menzionato.
“Ma noi siamo storici nel pugilato. Mio padre Salvatore Cherchi è conosciuto ovunque. Mauricio Sulaiman, De La Hoya, Al Haymon… tutti portano rispetto a mio padre. E sai perché? Perché è una persona onesta, di parola, che, con le spalle larghe come un armadio, ha portato per anni luce al pugilato italiano. Io e mio fratello gli dobbiamo tutto. Grazie a lui abbiamo acquisito quelle skills che non impari sul manuale, non impari all’università, le apprendi sul campo spaccandoti la schiena”.
Tipo, che skills devi avere per fare il manager?
“Tanti dicono 'io faccio il manager', ma che cazzo vuol dire? Fare il manager vuol dire far crescere un pugile in maniera adeguata, trovargli sponsor. Devi sbatterti, muoverti, chiamare, sentire. Dal punto di vista pugilistico devi avere delle capacità di analisi, di predizione e di gestione del rischio. Tipo: io e mio fratello abbiamo chiuso due mondiali bellissimi, quello di Tommasone e di Blandamura con Murata. Tommasone contro Valdez, che sogno. Valdez che rientrava dopo 10 mesi dalla frattura della mascella e cercava una difesa del titolo con un pugile di livello ma non un picchiatore seriale. PAF!, telefonate e viaggi intercontinentali ed era cosa fatta”.
Quindi in sostanza fare il manager e il promoter significa stare sempre sul pezzo.
“Vuol dire sbattersi sempre! Non ti piovono dal cielo le opportunità, devi costruirle! Comunque son due cose diverse, il manager e il promoter. Nel senso che se hai una TV forte, come in America, fare il promoter è facile. Hai una macchina organizzativa fatta bene. Il manager invece ti risolve i casini, ti trova i pugili giusti, fa crescere in modo adeguato i suoi atleti. Non è che li mandi al macello nel tritacarne pur di avere una borsa un poco più alta!”
Adesso c’è la Milano Boxing Night, il vostro evento di punta, il clou del pugilato italiano. Come si organizza un evento in tempi di Covid-19?
“È tutto più complicato. Tamponi, isolamento, personale sanitario raddoppiato. Noi ci occupiamo di tutto, in generale: contattiamo il service per le luci, paghiamo i giudici, il cronometrista, tutto. C’è un mondo dietro i due atleti che salgono tra le corde che manco ci si immagina. Ora con DAZN è diverso. DAZN ha portato una logica di lavoro internazionale. In Italia invece siamo arronzoni, non noi eh, ma ci sono situazioni tipo 'ti pago a tre mesi…', TV che falliscono e ti lasciano fatture scoperte… ma quale funziona così! Ma che cazzo dici! Non è giusto che funzioni come dicono loro. Noi abbiamo sempre provato a fare eventi SERI, anche prima della partnership con Matchroom e DAZN. Per tenere in piedi la boxe abbiamo fatto dei sacrifici esagerati. Io non ho casa mia, io non ho la palestra mia, siamo in affitto. Tutti i soldi dei big match degli anni 80 e 90 li abbiamo messi giù per mantenere viva la scena pugilistica”.
Da come ne parli, sembra che ci sia un “prima” e un “dopo” nella storia della boxe in Italia.
“Purtroppo sì. C’è stata una virata, a livello federale di FPI (Federazione Pugilistica Italiana, nda), di totale devozione al dilettantismo. Hanno voluto far diventare il pugilato “lo sport di tutti”. I soldi e l’hype sono stati spostati verso i dilettanti. E questo ha colpito anche la sfera tecnica: i maestri di pugilato invece di insegnare un pugilato da pro, insegnano a colpire solo al volto perché le macchinette segnapunti non ti contano i colpi al corpo. Si è andata a insegnare una boxe che non è boxe, è un altro sport. Poi ci chiediamo perché c’è carenza di professionisti in Italia? Fatevi delle domande e datevi delle risposte!”.
Ma scusa, se però si è voluto fare della boxe “uno sport di tutti”, perché il pubblico è ancora di nicchia?
“Beh perché la comunicazione è fondamentale, e se non la fai bene, resta una roba da addetti ai lavori. Comunque hanno tagliato i professionisti con la scusa che i pugili non portano cash. Ma se non crei un indotto è normale, ma poi scusate, pensate che in Inghilterra TUTTI i pugili professionisti abbiano uno stipendio grosso? Ma va! Molti fanno altro nella vita, agli inizi. La differenza è che in UK fai il cameriere, ma dopo 10 match vinti hai un’occasione di spessore. In Italia no. O meglio, noi di OPI portiamo in alto i nostri pugili, abbiamo un modo di lavorare differente. Esposito, un nostro fighter che combatterà per il titolo italiano venerdì, prenderà una borsa importante che gli consentirà di continuare a fare esclusivamente il fighter. Pensa se fai tre match così all’anno, e sei giovane. Crei una base per crescere”.
Adesso, che momento è per la boxe italiana?
“Nonostante la pandemia è un buon momento. Ora c’è dialogo con la FPI, ci hanno sostenuto durante il lockdown con diversi contributi, ma soprattutto c’è un progetto internazionale con DAZN. Ma non è che ora c’è DAZN e ci siamo rilassati. No, DAZN è la partenza per riportare in alto il nostro pugilato”.
Ma come ci siete arrivati a DAZN, se mi dici che fino a qualche anno fa eravamo messi male?
“Parti dal presupposto che anche negli anni bui, dal 2000 in poi, mio padre ha sborsato una marea di soldi per continuare a fare eventi di livello alto in Italia. Io di mio ho sempre avuto dentro questo fuoco per la boxe. Ho rilevato nel 2013 il Teatro Principe di Milano, sentivo che poteva essere un hub di partenza. Lì, tra eventi per avvicinare il pubblico medio come le white-collar fight e incontri importanti con Malignaggi e Yildirim, ci siamo creati una reputazione. Sembrava irrealizzabile, come fai a creare un movimento con un teatro da 500 persone? E invece è stata la base per arrivare poi nel 2019, con DAZN e Matchroom, a fare 3000 persone al Palalido. Io 3000 persone non le vedevo da Fragomeni titolato mondiale”
Che peso ha l’Italia nella boxe mondiale?
“Siamo come la Svizzera del calcio, come la Serie A svizzera. Siamo sempre in Champions League, però il nostro movimento non è la Serie A, la Premier, la Liga… noi abbiamo un mercato piccolo. Le nostre squadre fanno i preliminari di Champions, magari vanno ai gironi, però si fermano lì, non diventano i grandi nomi, il Grasshopper magari lo becchi col Real Madrid ma poi non cresce”.
Qual è il tuo primo ricordo legato al pugilato?
“Campanella contro De La Hoya. Forse la gente se l’è scordato che il nostro Giorgio Campanella ha messo il Golden Boy De La Hoya col sedere sul canvas del ring, alla prima ripresa. Io son cresciuto a pane e pugilato, andavo a fare le vacanze estive da Parisi, vivevo i campi di allenamento di mio padre a Ferrara dove c’erano i Duran… Sono cresciuto con loro, quello è il mio pugilato di riferimento. Ho anche praticato boxe: 29 incontri, 26 vittorie e 3 sconfitte, campione italiano universitario e bronzo ai campionati italiani. L’ho voluto fare per capire cosa significasse salire sul ring, capire che stato d’animo avevi e cosa percepivi, pensavo mi sarebbe servito in un mio futuro lavoro”.
Sei pieno di passione, ti emozioni quando racconti di match e di incasinamenti, non sbuffi mai.
“Devi avere passione per fare ‘sto lavoro, sennò non lo faresti. Se fosse facile, sai quanta gente poteva esserci dentro? Ma anche a livello mondiale, chi c’è? Bob Arum che ha 100 anni, Eddie Hearns, Golden Boy. Ma dimmi altre realtà potenti. Non è facile, ci sono tremila sbattimenti, ci potrebbero essere MILLE figure e invece ci sono pochi competitor. Perché? Perché è dura. Però cazzo quant’è bella la boxe”.
Qual è il sogno di OPI?
“Un sogno già lo abbiamo realizzato, portare Takam a fare il mondiale dei massimi. Dopo 2 anni che stava con noi, ha combattuto con Joshua. Non c’è nulla di più importanti dei massimi, né c’è una star come Joshua al momento. 76mila spettatori a Cardiff, un’emozione enorme. Il mio sogno è quello di ricostruire un tessuto qua in Italia per portare i nostri pugili all’estero e farli rispettare. Io giro tutte le convention, tutte le riunioni. Stavo a Canelo contro Jacobs, ho visto Joshua contro Ruiz quando Ruiz lo ha battuto a New York… bello eh, ma voglio viverle da protagonista. Io voglio andare al Madison Square Garden da protagonista!”.