Dopo un anno di pandemia, tre anni possono essere interminabili. Per questo, la cessione dei diritti televisivi della Lega alla società di streaming sportivo Dazn contro il colosso televisivo Sky è una vera rivoluzione nel mondo del calcio. La partita dei diritti televisivi non è ancora chiusa, ma si apre una nuova pagina del calcio, in verità anticipata da una crescente domanda dello streaming sulla classica televisione. L’ano scorso, i ricavi pubblicitari del web hanno superato quelli televisivi, consacrando il web come canale preferito dell’intrattenimento sportivo. Questo spiega in parte il successo di una società, come Dazn, che fino a qualche tempo fa era considerata “ancella” di Sky.
Per il giornalista Paolo Bargiggia, firma sportiva e opinionista trasversale del mondo del calcio, si tratta di un deciso cambio di passo. Ora, però, sarà necessario vedere come verrà gestita la rivoluzione. Perché più difficile di una guerra c’è solo il dopoguerra.
Paolo, come commenti la questione dei diritti tv a Dazn?
“È stato un bene che a vincere l’asta sia stata Dazn, perché la sua offerta è superiore di 120 milioni di euro rispetto a Sky. Con Dazn, la Serie A prende 870 milioni di euro all’anno. Se poi si considerano le tre partite in co-esclusiva, l’offerta si avvicina al miliardo di euro. Il punto che ora si presenta è: come verranno gestiti questi soldi? Se alla fine li butti in altissimi stipendi ai giocatori e commissioni ai procuratori, il Club sarà sempre in sofferenza. E chi ne va di mezzo è il fruitore, che vede un prodotto sempre più scadente”.
Veniamo ai diritti televisivi. È una rivincita di Mediaset?
“Beh sì. Negli anni passati, Mediaset era costretta a rincorrere Sky con la scommessa del canale Premium. Poi, però, le strategie non sono andate a buon fine: quando nel 2018 Premium ha chiuso, era chiaro che la corsa al rialzo per i diritti televisivi della Champions avesse avuto un grande peso. Adesso con Dazn, Mediaset potrebbe tornare in gioco”.
E per quanto riguarda Sky?
“Adesso in tanti criticano lo streaming del web rispetto alla televisione. Ma questo è un deciso cambio di passo rispetto a Sky, sempre vista come un deus ex machina. In questa partita, Sky ha pagato l’atteggiamento litigioso degli ultimi tempi, come l’anno scorso, quando con le riprese del campionato dopo la chiusura, ha congelato il pagamento dell’ultima rata ed è stata poi costretta dal giudice a pagare. Il suo atteggiamento è sempre stato un po’ minaccioso e le società non lo vedono bene. Ma per Sky è il calcio è uno dei tanti asset”.
Ma c’è anche uno scontro tra due visioni del calcio. Come si rifletterà nello sport?
“È una chiave di lettura di un contesto dove i presidenti della Serie A stanno cercando di capitalizzare al massimo per sopravvivere. Basta guardare alle ultime inchieste, che mostrano i conti spaventosi di un calcio in perdita. C’è stata la pandemia, certo, ma a monte c’è una cattiva gestione che dura da anni. Certo è che i 70 milioni all’anno che Sky dava per tre partite in un triennio, oggi sono ritenuti insufficienti. Verrà sicuramente rifatto il bando, ma credo che l’intenzione sia quella di prendere più soldi perché le offerte precedenti di Sky non erano sufficienti”.
Si può quindi dire che la pandemia ha mostrato i limiti di una gestione difficile?
“Esattamente. In Paesi calcisticamente più virtuosi dell’Italia – pensiamo alla Premier League o alla Bundensliga in Germania - gli investimenti sono stati gestiti meglio e si sono avuti meno contraccolpi. Viceversa in Italia, dove c’è stata un’escalation. Prima di Sky, con i diritti televisivi non sono mai stati fatti investimenti strutturali per far crescere il sistema. Negli ultimi anni nel calcio italiano sono stati messi troppi soldi negli stipendi dei giocatori, i procuratori l’hanno fatta da padrone, e le commissioni agli agenti dei calciatori e gli stipendi degli atleti hanno messo in ginocchio i conti delle società. Con la pandemia, i Club hanno fatto trattative con i loro giocatori per poter spalmare gli stipendi: si sono trovati impreparati”.
C’è bisogno di cambiare il sistema?
“Sì. In questo momento, il calcio italiano è in una situazione delicata dove i soldi dei diritti tv ti permettono di tamponare una situazione. Ma se non cambiano le modalità di gestione e di fare calcio, si troveranno solo pezze. Il calcio italiano, per esempio, ha sbagliato a bocciare l’ingresso dei fondi d’investimento che avrebbero garantito una diversa gestione della Lega Calcio, una nuova governance, con un management sganciato dalla volontà dei presidenti. L’ingresso dei fondi al 10% del capitale delle società di serie A avrebbe portato a un miliardo e 700 milioni di euro”.
E perché non è stato possibile?
“Perché i principali attori, i club più importanti, lo hanno bocciato. Agnelli con la Juventus ha dato il colpo di grazia: lui ha interesse a sviluppare una Super Lega, un torneo esclusivo di super ricchi che metterebbe in difficoltà i campionati locali perché si andrebbe a restringere gli sponsor e creare un calcio delle élite: ma così tradisci la vocazione di un calcio per tutti, in cui vince il merito. Il presidente della Juventus, che è pure nel board dell’ECA, sa che per fare questo ci vogliono Leghe deboli, per cui i fondi di investimento sono abortiti ancora prima di iniziare. Non è un buon segnale per il futuro, perché ci sarà sempre una gestione della Lega personalistica e poco manageriale”.
A proposito di gestione, tu hai criticato anche i presidenti…
“Sì, sono più prenditori che imprenditori, perché prendono soldi e non fanno progetti. Con i fondi di investimento, si poteva pensare a un canale della Lega che, a partire dal 2024, avrebbe potuto vendere i diritti ai vari player. Invece questa cosa non viene fatte perché c’è solo l’interesse a questioni personali e non di sistema. Presidenti come Lotito e De Laurentis, che combattono questa svolta modernista nella Lega portata dal presidente Paolo Dal Pino, si mettono di traverso perché sono stati sempre abituati a gestire le vicende in Lega in un altro modo, e a trattare anche furbescamente i diritti televisivi con Sky privatamente, oltre che con l’accordo collettivo. È una gestione troppo personalistica del potere e così il sistema non cresce.