Se penso a Venditti mi torna in mente un venditore di cucine. Ero appena maggiorenne, lavoravo dentro ad un centro commerciale a quaranta chilometri da casa. Prendevo la moto e andavo a vendere mobili. Eravamo io e lui contro il mondo, inchiodati attorno all’espositore mentre tentavamo di rifilare piani cottura a signore di mezz’età. Lui aveva i capelli grigi, la furbizia negli occhi e una macchina vecchia di vent’anni in condivisione con un senegalese. Passava il tempo cercando un modo qualunque per fumare un’altra MS gialla e poi, in pausa pranzo, andava a spendere la moneta alle slot machine. Di tanto in tanto giocherellava con un assegno di mantenimento per la ex moglie mai consegnato, per poi rimetterlo in una tasca interna della giacca stropicciato e irrimediabilmente scoperto. Lui vittima di mezz’età della crisi economica, io convinto di trovare l’indipendenza a colpi di rubinetti in acciaio inox. Eravamo due disperati. Da romano però, lui aveva Venditti. Fischiettava i suoi pezzi con una precisione dell’altro mondo e continuava a sciorinare aneddoti sul Core de Roma. Così la sera, a casa, cominciai ad ascoltarlo anch’io, Venditti. Per me è sempre stato l’incarnazione musicale della speranza, del poter uscire dal buio a tentoni. Era perfetto per quel periodo. Mi chiederete cosa c’entra con Paolo Rossi.
Quando Antonello Venditti canta Giulio Cesare, il Paolo Rossi nella canzone è un altro. Il venditore di cucine, dall’alto della sua vendittiana esperienza, mi spiegò che era un ragazzo della mia età, ammazzato di botte alla Sapienza di Roma. Diciannovenne. “Era l’anno dei mondiali, quelli del ’66. La regina d’Inghilterra era Pelè” canta Antonello, che la morte di quel Paolo l’ha vista con i suoi occhi. Poi nel cambio di strofa passa a Pablito, al Paolo Rossi patrimonio d’Italia.“Era l’anno dei mondiali, quelli dell’’86. Paolo Rossi era un ragazzo come noi”.
È questa l’epica di Venditti, delle cose che si trasformano per rifiorire. Cose semplici ma straordinarie. Quando Paolo Rossi se n’è andato, un anno fa, il cantante ha voluto salutarlo con un video di un concerto in cui sono assieme a raccontare aneddoti al pubblico.
“Ecco a voi Paolo Rossi. La canzone si è evoluta, da Paolo Rossi sono passato a Francesco Totti, dall’86 al 2006. Ma il vero titolare di questa canzone era lui. E sono veramente orgoglioso di averlo qui. Vi racconto un aneddoto. Quando hanno riportato la coppa in Italia ho passato una notte folle. Erano le tre e mezza di notte, a casa di Gianni Minà. Prendo Paolo e Tardelli e li faccio salire sulla mia macchina, una Volkswagen Golf GTI truccatissima, siamo passati dalla via Cassia sopra al Gianicolo in cinque minuti diretti a Trastevere, sotto casa mia. Lì, ed è vero, è successo questo. Vediamo dei tassisti che giocano a palla, scendiamo dall’auto e giochiamo con loro, che già stavano di fuori, erano le 4 di notte. Passa uno che consegna i giornali al volante di una Opel Omega e vede Paolo Rossi, Tardelli e Venditti che giocano a palla il giorno dopo la vittoria nel mondiale. Questo ci guarda, si ferma e gli parte un “ma vaffan…”. Paolo Rossi è stato il primo simbolo italiano che ha portato l’Italia nel mondo, andando oltre la tifoseria. Spero che sarà sempre così”.
Ecco, cose semplici ma straordinarie, come una partita di pallone sotto casa con Paolo Rossi in una notte del 1982. Anche Pablito in fondo era questo, tanto semplice all'anagrafe quanto straordinario nella vita.
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