In vista dell’uscita del documentario “Sic”, Paolo Simoncelli ripercorre la storia di suo figlio e con suo figlio: “Molti mi chiedono – dice al Venerdì di Repubblica – se mi sono mai pentito di aver messo Marco sulle minimoto da piccolo e dico che rifarei tutto anche sapendo come è andata a finire. Perché correre in moto lo rendeva felice. L’unico momento brutto è stato quando ha avuto paura di non realizzare il desiderio di diventare campione del mondo”. Un desiderio poi avveratosi nel 2008 in 250, prima di passare in MotoGP e, tre anni dopo, morire in pista a Sepang.
“A spingere Marco – racconta Paolo, team manager della squadra corse Sic58 – era un desiderio di competizione che ha avuto fin da bambino. […] Qualsiasi cosa facessimo, si trattasse di camminare per strada o salire le scale per andare a casa, lui voleva sempre stare davanti. Gli scocciava tantissimo arrivare secondo. Io ho sempre avuto la passione delle moto, e così come per altri padri è naturale portare i figli alla scuola calcio, io l’ho messo sulle minimoto e sono stato fortunato: non soltanto lui si divertiva, ma andava anche forte. Se la cavava però molto bene anche col pallone, tanto che a 14 anni abbiamo dovuto decidere quale sport avrebbe seguito. E abbiamo scelto il motociclismo”.
Paolo racconta però anche di quando Marco gli ha detto di voler smettere… “Tutto è avvenuto nel 2006 con l'approdo in 250 sull’Aprilia (moto in corsa con la livrea Gilera, ndr), la squadra di Rossano Brazzi, che all’epoca era considerata al top perché aveva lanciato Melandri e Valentino Rossi. […] La realtà è che Marco e Brazzi non si sono piaciuti, per diversi motivi, e nel momento cruciale in cui iniziava ad arrivare qualche risultato, il capo tecnico ha avuto la labirintite e al posto suo è arrivato un giovane. […] Marco a un certo punto ha ceduto. Un giorno mi ha detto: «Babbo, voglio smettere, non sono più buono a guidare». Siccome non avrebbe mai ascoltato il mio parere, l'ho fatto parlare con l’amico meccanico Sanzio Raffaelli, detto Malabrocca, che gli ha spiegato come la mancanza di risultati non dipendesse da lui. E cosi ha continuato”.
E ancora: “Quando abbassava la visiera diventava un guerriero, pronto a qualsiasi cosa pur di primeggiare. Era un perfezionista, tanto che costringeva sua madre a registrare le gare e poi stava ore a rivedere al rallentatore le traiettorie di ogni curva, sfinendo noie anche i suoi amici”. Una volta tolto il casco però, “Marco era un ragazzo normale, semplice, dalla battuta pronta, che piaceva al pubblico per quella spontaneità che lo aveva reso un personaggio mediatico. Anche se va detto che lui non faceva nulla per costruire quell'immagine, gli veniva tutto naturale”.
Altro ricordo: “Quando ha iniziato a essere famoso, lo invitavano per andare in discoteca un'ora e portare a casa magari 10mila euro. Io avrei accettato, ma lui rifiutava dicendo: «Babbo sono un pilota, non sono mica un tronista»”.
Sul rapporto con Valentino Rossi: “Lo ha sempre ammirato, in camera sua il poster di Vale c'è ancora. […] E quando poi si sono conosciuti, si sono piaciuti subito: a fine gara Marco andava sempre nel camper di Vale per chiedergli consigli. Si frequentavano anche fuori dalla pista”.
Un rapporto legato purtroppo anche all’incidente mortale del 23 ottobre 2011: “Marco è morto nel circuito in cui era diventato campione del mondo, che si chiama Sepang International Circuit, il cui acronimo è Sic, ed è stato colpito (oltre che da Colin Edwards, ndr) da quello che in pista era il suo migliore amico”, dice Paolo Simoncelli. Che però aggiunge: “Rifarei tutto, perché insieme a Marco abbiamo passato 24 anni straordinariamente felici”.