Sventola alta sopra Maranello, davanti alla sede della scuderia Ferrari, la bandiera dei vincitori. C’è il sole ma se potesse, se fossero gli italiani a scegliere, pioverebbe rosso dal cielo. Perché dopo anni difficili, complicatissimi sul piano politico e sportivo in Formula 1, la Ferrari è tornata e lo ha fatto come neanche nel migliore dei sogni ci si sarebbe potuti aspettare.
Si sono nascosti, hanno cercato di abbassare le aspettative, hanno detto che puntavano su cinque vittorie, poco più, e che i top team restavano altri. Ai test hanno alzato il piede il più possibile e moderato le parole di incoraggiamento ma quando sono arrivati in Bahrain hanno smesso di nascondersi: per un secondo posto, Mattia Binotto, non avrebbe firmato. E alla fine ha avuto ragione lui. Non ha venduto l’anima al diavolo, non ha voluto ingegneri stranieri, uomini importanti difficili da gestire, ha creduto nella sua squadra giovane e affamata e per quel secondo posto in Bahrain non ha firmato davvero.
Si è preso tutto: la pole position, la doppietta sul podio, il giro veloce e i complimenti di un paddock emozionato e felice. Avversari compresi. Si è preso le lodi di chi lo ha sempre insultato e con eleganza ha risposto: “Io sono stato il parafulmine di questa squadra”. È il termine più bello che potesse usare, Mattia Binotto. Ingegnere dal cuore rosso fin dai tempi di Jean Todt e di Michael Schumacher, padre di un progetto in cui sembrava non credere più nessuno.
“Perché sì, avranno anche lavorato tanto - ripetevano tifosi e appassionati ormai disincantati - ma gli altri hanno Toto Wolff, hanno Chris Horner, hanno Adrian Newey, Max Verstappen, Lewis Hamilton, la forza politica, tutte le fortune e pure forse un po’ di aiuto dall’alto”.
Sembrava una battaglia persa prima del via, guardando i volti scuri di avversari giganteschi, stranieri, vincenti. Ma mentre nessuno ci credeva, Mattia Binotto è stato parafulmine contro tutto. Ha protetto una squadra che ha lavorato giorno e notte, che è migliorata in qualsiasi cosa - dai pit stop alla gestione delle strategie - e che più di ogni altra cosa non ha mai avuto paura.
E Charles Leclerc ne è l’esempio. Insultato perché “troppo aggressivo in pista” il monegasco indiavolato con la faccia d’angelo della Ferrari ha sempre ribadito un solo concetto: “Rischio perché altrimenti se non lo faccio, con questa macchina, non vado da nessuna parte”. Si è preso delle libertà che adesso, con una Ferrari fatta tutta di un’altra pasta, non ha bisogno di prendersi più. In Bahrain ha guidato alla perfezione, gestendo con intelligenza (e talento) uno squalo come Max Verstappen. Non ha vissuto la foga del sorpasso ma ha sempre aspettato l’occasione per restituire il colpo. Ha guidato affamato ma mai ingordo e anche lui, a modo suo, è stato parafulmine contro la paura.
Contro la paura di buttare via tutto in ogni secondo, magari con una ripartenza sbagliata dietro safety car o con un errore di troppo. Contro la paura di non poter gestire un avversario che spesso ha dimostrato di preferire "rompere il gioco" piuttosto di veder vincere un altro.
E lo ha fatto riuscendo a garantire continuità con un compagno di squadra forte e solido come Carlos Sainz, amico dentro e fuori dal paddock, che lo scorso anno ha spesso portato il pubblico a mettere in dubbio la forza di Leclerc ma che non ha mai scalfito il rapporto di complicità creato tra i due.
Ha guidato per vincere senza dimenticarsi degli altri, il pupillo d'oro della Rossa, consapevole di essere parafulmine, adesso, e di non potersi più permettere di nascondersi sotto gli altri, schivando colpi e cercando protezione.
Perché non c'è più spazio per la paura quando la bandiera è alta fuori da Maranello.