“Alle olimpiadi vengono creati gli eroi, alle paralimpiadi arrivano gli eroi” Non è un caso questa citazione di Rising Phoenix, film documentario di Netflix del 2020. Una storia che in un minuto e 46 mette in scena quelli che sono i punti di forza e i punti di svantaggio di una categoria umana e sociale che dal mondo dello sport ha ricevuto un forte rispetto, seppur con incredibile difficoltà, fino ad addirittura un posto nel panorama olimpico degno di considerazione. Tre agitos – che significa “muoversi” in latino – sono il simbolo, a scapito dei cinque cerchi delle Olimpiadi classiche, perché tutti possano sentirsi abili e “in movimento” ancora nella loro inabilità. La storia dei Giochi paralimpici parte nel 1960 a Roma, ma il riconoscimento è avvenuto molti anni dopo. A oggi Londra è stata una delle città che ha più celebrato questa grande parentesi della società, muovendosi contro ogni stereotipo. La capacità di inclusione nello sport sta aprendo gli orizzonti a una mole di messaggi positivi nell’ottica di permettere a queste persone di sentirsi rappresentati. La considerazione che ha ottenuto nel tempo lo sport paralimpico ha permesso a questo di aggiudicarsi questo posto totalmente dedicato nella gara sportiva più importante del mondo. Il multisport voluto dal CPI – Comitato Italiano Paralimpico, ndr.– ha in generale trasformato a livello globale l'idea di disabilità, stuzzicando, incuriosendo con la diversità grazie ai gradi di eccellenza che vi appartengono.“Mi piacerebbe essere come loro”. È il profondo senso di appartenenza che si sviluppa per coloro che son nati o sono diventati parte di una comunità che vi è sempre stata, ma per essere crudi e diretti e nel parallelismo con l’antica Grecia – luogo che ha visto nascere le Olimpiadi in generale – non si finisce più giù da un dirupo quando non si nasce con la forma di eroe, perché essere eroi va oltre il fisico e l’aspetto. Un gioco di parole, questo, che viene però risolto da un solo concetto: la determinazione, la chiave per questi eroi che nascono per colpa di storie complesse, alle volte divertenti, altre un po’ meno.
Scherzi del destino o eventi storici, malattie o incidenti, queste categorie sono rappresentate da atleti che pur lottando per un oro, restano anime straordinarie con al loro fianco addetti ai lavori profondamente preparati, che li portano in alto. Per quest’occasione, tra un sigaretta e un girone, abbiamo chiesto a un esperto, un preparatore olimpico che a casa di medaglie ne ha portate un bel po’ e che dal 2021 svolge un ruolo fondamentale nella nazionale di scherma paralimpica: il coordinatore tecnico e ex campione di sciabola napoletano Dino Meglio. Lo abbiamo incontrato in occasione delle qualificazioni Assoluti di spada a Baronissi (SA) e ha risposto a qualche domanda prima di correre a fare da supporto ai suoi allievi in pedana, in quanto mental coach e allenatore anche della sua Accademia Olimpica Beneventana.
Certamente oggi lo sport lascia uno spazio abbastanza grande per permettere alle diversità di potersi far notare, di non arrendersi agli evidenti impedimenti che la disabilità comporta. Ma in primis come è cominciata questa avventura nei Giochi paralimpici e come hai reagito tu?
All’inizio mi ha lasciato un po’ perplesso, avevo tante cose da fare. Dopo le Olimpiadi del 2012 volevo riposare, campare, stare a casa e trasferendomi a Benevento con la mia compagna ho deciso di dedicarmi all’educazione. Fulmine a ciel sereno l’incontro con Rossana Pasquino che mi ha portato a frequentare un margine nuovo dello sport e ho capito di poter dare ancora qualcosa. Mi hanno proposto questo lavoro, ma pur preferendo un ruolo più tecnico, mi sono abituato e ho iniziato ad apprezzare anche il lato da coordinatore delle tre armi. Le cose nuove mi affascinano, c’è poco da fare. De Andrè lo dicevasempre che siamo sempre alla ricerca di novità, la reiterazione è ciò che stanca.
Sfidarsi a livello internazionale è una delle migliori modalità per riuscire a sentirsi uguali agli altri, parallelamente alla riscoperta di sé nella propria consapevolezza quando ci si guarda allo specchio. Umanamente, come ti fa sentire il fatto di dover gestire oltre alla parte tecnica, anche la preparazione psicologica spesso minacciata dal confronto con le verità?
Io da counselor li vedo scoprire una dimensione diversa attraverso lo sport. La loro condizione gli gioca il brutto scherzo di dimenticare quanto esso a contatto con l’anima possa fare tante cose. Chi ha avuto un danno fisico importante si ripara un pochettino nello sport proprio per vedere questa esperienza portata ai massimi livelli. La propriocezione del corpo cambia in questi ragazzi e più che rapportarmi io con la loro diversità, sono loro che si rapportano con questa e mi restituiscono quanto appreso.
Quindi in questi casi il corpo non è un limite?
Assolutamente no. Lo sport è corpo, noi siamo tutta anima ma il corpo ce lo scordiamo e in realtà è fondamentale. Ti abitui in questo funzionare nuovo. Gli atleti si spingono a ricordarsene, giocando e sperimentando su loro stessi, piuttosto che lasciandosi sopraffare dalla loro condizione. La scherma per esempio è espressione corporea in ogni senso, come su un palco. Bisogna imparare a dialogare col corpo, perché paradossalmente ciò ti rende incorporeo e quindi più forte.
Stili diversi, motivazioni diverse, inabilità che rendono tuttavia lo sport dinamico, con ogni porta aperta a chiunque voglia provare a ritrovare casa propria, un luogo sicuro, una classe di appartenenza per riuscire a rinascere, vivere, sentirsi forti. Esattamente che significa ambire allo sport come forma di rappresentazione personale, di categorizzazione che vada oltre la disabilità?
Stare sulla pedana è scoprirsi. Fare tante cose serve a non perdersi niente, noi vogliamo capire, uscire dal mirino stretto della nostra vita, vogliamo sperimentare. Noi non dobbiamo transitare la vita, dobbiamo esplorare, essere divergenti. Noi abbiamo bisogno di trovare la nostra impostazione originale. Non bisogna essere rivoluzionari, bisogna campare, vedere lo spazio attorno a sé.
Chiaramente in generale questo discorso è possibile ampliarlo alla tua personale esperienza, che va oltre le Paraolimpiadi. Mi pare di capire che tu sia molto favorevole al buttarsi, al provare e il non avere vergogna di mostrarsi. Hai affermato anche che il pubblico è la parte migliore del tuo lavoro. Ma quanta differenza fa il supporto degli altri, ma soprattutto dei genitori?
Diciamo che il sostegno è vario, quello più concreto è quello della famiglia. Siamo inseriti in una famiglia, cresciamo e assorbiamo la nostra mappa del mondo fornita dai genitori. Il primo fattore di equilibrio è quello familiare, se sono equilibrate soprattutto. Lo sport è la prima esperienza di quasi tutti i bambini ed è completamente loro e dovrebbe essere così, un luogo in cui non dover esser costretti a portare risultati ma anche dove il genitore è conscio del tentativo di ricerca del bambino. Perché se così non fosse andrebbe inserito il famoso detto “l’atleta perfetto è orfano”. I figli devono mollare se ne sentono il bisogno. Mia figlia per esempio ha fatto scherma, ma non aveva senso l’allenassi io, perché riproduceva a suo modo alcune dinamiche del rapporto. I bambini vanno lasciati liberi. Campa, fai la tua vita, affezionati a altro. Un genitore bravo è quello che accetta le separazioni. Il supporto del pubblico è legato all’emotività, invece. Il pubblico rispecchia ciò che siamo, se abbiamo un buon equilibrio personale sappiamo distinguere nel supporto del pubblico delle differenze: se ti fischiano o te ne fotti o te la prendi, e se te la pendi è perché hai delle lacune che devi essere disposto a superare. Inutile litigare. Il supporto totale invece serve tanto, perché ci tuffiamo. Ma quando siamo vincolati a poche istruzioni, non impariamo da nulla e nessuno.
E dei maestri e allenatori cosa pensi?
La seconda famiglia è quella dei “genitori tecnici”, il tecnico che ti sta dietro non è neanche giusto, bisogna lasciar andare, anche in termini di prestazione: se un’atleta è in grado di sentirsi figo da solo, tira meglio. Se lo rendi dipendente dal tuo insegnamento, l’atleta penserà di non valere nulla senza di te, così ne generi una mezza figura, un mezzo atleta. Un atleta dipendente non è un atleta vero. A conti fatti a posteriori, con una famiglia che mi ha lasciato libero di essere, posso ringraziare il mio disincantato maestro di schema che al tempo mi ha insegnato a giocare, enfatizzando anche una parte di me che è tutt’ora presente. Se affronti tutto come un gioco, soprattutto nella scherma, i bambini imparano prima. Mi sento di dire che se prendi le cose meno sul serio, hai capito come funziona tutto, dalla vita, al lavoro, allo sport. È un disastro quando prendi le cose seriamente.
Come ti fa sentire quando un tuo allievo o allieva raggiunge i risultati sperati? Soprattutto nella nazionale. C’è qualcuno che ti ha insegnato più di quanto tu abbia fatto per loro?
Allievi ne ho avuti, ognuno con una sua caratteristica, lasciarli andare mi permetteva di diventare non solo maestro ma anche amico. Galimberti diceva che il maestro o professore non deve mai compromettersi con gli allievi, perché perde autorità, cosa che invece io non penso. L’autorevolezza nasce a prescindere, nel riconoscimento di avere qualcosa da dare. Il rapporto non autoritario, ma paritario fa passare le cose e si viene a creare un’intimità intellettuale che mi ha portato ad avere un bel rapporto soprattutto con Gigi Tarantino. Una persona particolare, con una vita complessa con il quale ho stretto un rapporto duro, da non modificare. Assecondare l’allievo e quello che hanno dentro, porta fuori anche quello che potrebbe servire a te. Rispettare la loro natura è la chiave.
Tornando al presente, a proposito dei Mondiali. Parigi? La vediamo vicina? Cosa ci aspettiamo?
Sta andando bene in termini di risultati, perché abbiamo ottenuto un po’ di roba buona. La media dei qualificati alle Paralimpiadi precedentiera di 7/8 atleti, adesso siamo in quota prossima ai 10/11, quindi diciamo che per il primo obiettivo stiamo andando molto bene. Dal punto di vista delle medaglie, che sono quelle che poi ci interessano, a Terni siamo andati bene l’anno scorso e abbiamo preso 12 medaglie, superando i vecchi risultati. A marzo abbiamo gli europei a Parigi e dovremmo confermare gli ultimi qualificati. Ho una funzione è un po' faticosa, quella di… equilibratore del team, anche se ho dei collaboratori davvero molto bravi. E questo ci sta permettendo di lavorare molto bene. Vorremmo anche ampliare la nostra base a livello di atleti, cercando di reclutare la maggior parte delle persone, schiodandole dalle loro case e portandole con noi.
Secondo te lo sport paralimpico è davvero utile a comunicare un messaggio di inclusione? Hai notato dei cambiamenti, in questo caso, nella scherma?
Siamo riusciti a organizzare dei collegiali integrati, vale a dire allenamenti durante i quali gli atleti in piedi tirano con gli atleti in carrozzina, cercando di unire la Nazionale olimpica con quella Paralimpica, secondo un progetto e un programma comune. È una cosa che d’altra parte nella mia società come in altre avviene stabilmente. Chiamiamolo primo passo di integrazione reale e non basata solo sul politicamente corretto.