Israele fuori dalla FIFA. È questa la richiesta che è stata avanzata l’8 febbraio dalle 12 federazioni aderenti alla WAFF, l’associazione del calcio mediorientale, che fa parte della confederazione asiatica AFC. Una presa di posizione che poggia su un noto precedente, visto che quasi due anni fa la stessa cosa era successa alla Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina. La verità, però, è che la proposta mediorientale non ha nessuna possibilità di successo e rischia di restare solo una notizia tra le tante che hanno fatto da contorno a questo conflitto.
Il mondo del calcio è estremamente refrattario a parlare di sospensioni o esclusioni dei paesi membri: con 211 federazioni iscritte, la FIFA è oggi la più rappresentativa organizzazione sovranazionale del pianeta, ben oltre i confini sportivi (il CIO riunisce solo 206 comitati olimpici nazionali, l’ONU si ferma invece ad appena 193 membri). Il suo presidente Gianni Infantino non ha nessun interesse nel ridurre la propria sfera d’influenza, che gli permette di porsi come un leader diplomatico e non solo come un rappresentante dello sport. Il caso, spesso citato della Russia, più che mettere in risalto una presunta ipocrisia della FIFA, ne rivela invece il funzionamento coerente.
La reazione degli organi del calcio internazionale davanti all’invasione dell’Ucraina non fu infatti quella di espellere i rappresentanti russi, ma bensì di consentire alle selezioni di partecipare ai vari tornei ma senza poter esporre la bandiera o suonare l’inno nazionale (una soluzione che ricalcava quella del CIO sempre contro la Russia per il caso doping). Furono le minacce di boicottaggio da parte di alcune nazionali europee (Repubblica Ceca, Svezia, Polonia, Galles e Inghilterra, principalmente), e il conseguente rischio di danneggiamento economico del Mondiale in Qatar, a costringere UEFA e FIFA a tornare sui loro passi ed escludere la Russia dalle competizioni. Una mossa in realtà abbastanza di facciata, tant’è vero che Alexander Dyukov - il capo del calcio russo e dirigente chiave del colosso energetico statale Gazprom, peraltro fino a due anni fa sponsor della Champions League - siede ancora regolarmente nel Comitato esecutivo della UEFA.
La stessa UEFA è, di conseguenza, l’unica ad avere voce in capitolo su un’eventuale esclusione di Israele dal calcio internazionale, visto che dal 1994 la sua selezione e i suoi club fanno parte della confederazione europea (dopo essere stati espulsi, vent’anni prima, dalla AFC sempre per ragioni politiche). Seguendo l’esempio russo, l’unico modo per spingere l’organizzazione a sospendere Tel Aviv sarebbe una serie di boicottaggi da parte delle altre squadre, cosa che però finora non è mai avvenuta e sembra improbabile possa accadere a breve. In trent’anni nessun club o federazione nazionale si è mai rifiutato di incontrare Israele o le sue squadre di club. Dei 55 membri della UEFA, forse solo Turchia e Irlanda sarebbero disposte a portare avanti una protesta radicale contro gli israeliani: troppo poco per pensare a un’esclusione.
Non a caso, giovedì scorso, dopo la proposta della WAFF, il segretario generale della UEFA Theodore Theodoridis ha subito chiarito che l’associazione non ha “nessuna intenzione" di escludere Israele. Non è stato effettuato alcun voto tra le federazioni europee, e non si sa se Theodoridis abbia consultato i rappresentanti dei vari paesi membri prima di esporsi, ma l’assenza di contestazioni alle sue parole mette bene in chiaro come la posizione europea sia abbastanza omogenea. I dirigenti del calcio del Vecchio Continente si guardano bene dal riconoscere esplicitamente il peso della politica nello sport: ammetterlo aprirebbe a conseguenze problematiche per tutti. Come ad esempio perché permettere di giocare alla Turchia o all’Azerbaijan (che proprio in questi giorni sta ripopolando il Nagorno Karabakh con cittadini di etnia azera, dopo aver cacciato gli armeni dalla regione), o perché consentire alla Spagna di affrontare il Kosovo mentre si rifiuta di farne sentire l’inno in tv o anche solo pronunciarne il nome.
Ma la situazione è tutt’altro che risolta così. La UEFA semplicemente nega l’esistenza di un problema e sceglie di non affrontarlo fino a che non sarà troppo tardi. Il prossimo 21 marzo, la selezione israeliana si giocherà l’opportunità di qualificarsi per la prima volta alla fase finale degli Europei, affrontando un spareggio contro l’Islanda, un paese in cui la popolazione è piuttosto schierata in favore della causa palestinese. Nei giorni scorsi, l’allenatore degli scandinavi Åge Hareide ha detto che preferirebbe non dover giocare contro Israele, visto quello che sta succedendo a Gaza. Il prossimo autunno, Israele si troverà poi impegnato nella Nations League in un girone con Francia, Italia e Belgio, ovvero altri tre paesi in cui rischia di trovare un pubblico alquanto ostile (a Bruxelles i rapporti con Tel Aviv sono tesi anche a livello istituzionale).
Il calcio europeo non sta agendo in maniera affatto dissimile dai governi che più o meno direttamente rappresenta. Le prese di posizione per il cessate il fuoco nella Striscia sono ancora rare e deboli tra le istituzioni, mentre per contro manifestazioni pro-Palestina sempre più partecipate si verificano ovunque per il continente. Una divergenza che in Italia è divenuta fin troppo evidente durante il Festival di Sanremo, e che rischia di riproporsi il prossimo maggio a Malmö per l’Eurovision Song Contest. Anche in quest’ultimo caso è arrivata la richiesta di esclusione per gli artisti israeliani, ma l’organizzazione dell’evento ha rigettato il boicottaggio proprio come ha poi fatto anche la UEFA, anche se questo probabilmente non impedirà contestazioni dirette al momento del contest. Dalle istituzioni politiche a quelle della cultura popolare e dello sport, l’Europa sembra sempre più incapace di affrontare adeguatamente una delle questioni più centrali della nostra società globale.