Nicolò Bulega entra in pista per la prima volta su di una MotoGP assieme alle MotoGP. In Italia è quasi ora di pranzo quando, alla fine del secondo run e con gomme usate, si produce in un 1:40.073 sul serpentone di Portimão, a nove decimi da Alex Marquez che guida la classifica e si candida a grande favorito del weekend. Dall’altro lato del box c’è Pecco Bagnaia, diciassettesimo e ultimo pilota Ducati.
Pecco parla di problemi ai freni e di una moto che non lavora come vorrebbe, poi affronta la prova di partenza come una pratica fastidiosa, la stessa di chi timbra in fabbrica al mattino, che detto così sembra eccessivo perché se hai vinto tre mondiali guidare la moto dev’essere la cosa più bella del mondo. Eppure proprio per questo sa essere un incubo e, con tutte le probabilità, l’idea di tornare al box con i soliti problemi di cui discutere e le brutte sensazioni accumulate durante la prima ora in moto devono averlo colpito forte. Il punto è proprio che se la cosa più bella al mondo diventa un dramma c’è poco che resta a cui aggrapparsi. Mancano i riferimenti, le idee. Ecco perché buona parte delle motivazioni per cui la Desmosedici di Bagnaia non sta funzionando è che al pilota manca fiducia.
Se avete mai preso in mano uno skateboard e provato a buttarvi da una rampa, che sia un quarter pipe (quella che sembra uno scivolo) o un half pipe (a forma di U) saprete che l’unico modo per scendere da laggiù senza farsi male è buttarsi, spingersi in avanti: di tecnico lì c’è poco o niente, il gesto atletico è semplicissimo. Il segreto è tutto nel trovare la giusta fiducia per sporgersi col corpo verso il vuoto e dare una bella spinta alla tavola col piede sospeso. Andare forte con una MotoGP ha più a che fare con la testa che con il resto. Andrea Dovizioso, in una lunga intervista per Benzine, ci ha spiegato che in MotoGP non esiste una modifica che ti fa viaggiare più forte di un secondo. Esiste, invece, una modifica che con mezzo decimo di tecnica ti fa guadagnare un secondo di fiducia.
A Pecco Bagnaia adesso manca quella cosa lì, la fiducia. Che si può ritrovare in un attimo e poi riperdere nel giro di due ore, il che ci restituisce una spiegazione molto più convincente di qualsiasi altra teoria elaborata (anche qui e anche da chi scrive) negli ultimi mesi. Come l’abbia persa, tra una moto che non ritrovava più sua e una squadra cambiata radicalmente, è difficile da dire con esattezza ma neanche troppo complesso da immaginare. Se lo vediamo ancora vincere (come in Malesia nella Sprint) è perché il talento c’è ancora, non si scorda. Se lo vediamo soffrire è perché a volte è come se uscisse di casa ritrovandosi a camminare su di una lastra di ghiaccio, un po’ impacciato nei movimenti e soprattutto spaventato perché il suo calendario dice che è il quindici agosto. Magari questo pomeriggio cambierà, la lastra di ghiaccio è sottile e basta poco per far sì che si sciolga. Magari tornerà, magari non subito. Magari vedere Bulega già veloce gli darà una buona scossa.
Qualcuno a vederlo così in difficoltà ci gode, dice che è l’effetto Marc Marquez, che finalmente stiamo vedendo il suo livello e tutta una serie di buffe storielle, piccole cattiverie per ammorbidire quella che di fondo è una grossa invidia. E invece siamo fortunati a vedere lui affrontare questa cosa, perché magari un giorno capiterà a noi e, se saremo stati abbastanza attenti, sapremo come fare: bisogna lavorare, cercare il decimo e, soprattutto, fare le cose come vanno fatte. C’è una storia, forse sul naufrago Robinson Crusoe, che dice moltissimo di questa condizione: da solo e su di un’isola piena di niente, il naufrago va a caccia come può e cucina quello che gli riesce. Poi però fa tutto il possibile per trovare una tavola, sedersi lì e mangiare come se fosse a casa, composto il più possibile e con delle posate, magari di fortuna. Anche se non poteva vederlo nessuno, lui mangiava così: per non impazzire, ma pure perché rimanere noi stessi è la cosa più importante che possiamo fare.