Nelle corse in moto si impara in fretta la fede. Perché si gioca con la vita e ci si affida al dettaglio. Un metro di più, tre gradi di inclinazione, vai per terra. Se in una gara di quaranta minuti si finisce ai centesimi vuol dire che devi crederci, che ti devi tagliare le unghie per andare più forte e pregare i tuoi santi per arrivare in fondo. La prima volta che Francesco Bagnaia ha guidato una Ducati a Valencia era il 2016, dopo aver vinto una scommessa con Gino Borsoi: vinci due gare e te la lascio. Oggi ancora Ducati, ancora Valencia, ancora una prima volta perché di questo è fatta la vita di alcuni di noi, di chi vuole che sia così.
L’impresa di Francesco Bagnaia è eccezionale, ed è di questo che ogni tanto ci si scorda. Si dice che in Qatar partisse favorito, ma l’unico favorito a inizio anno è quello che ha vinto il titolo nella stagione precedente. Si diceva che la sua moto fosse la migliore, la più desiderata. Eppure dall’inverno al Portogallo quella moto è stata difficile, peggio della vecchia GP21 su cui gli altri volavano. La Ducati che Pecco ha portato a Valencia era perfetta, lui però non è un privilegiato: ha visto l’altro lato della luna con una piccola indiana su cui era impossibile scommettere, quella Mahindra che il Team Aspar ha portato in Spagna per ricordarla a tutti. 21, 42, 63. Il 21 come Franco Morbidelli che gli è arrivato dietro, il 42 di Alex Rins che ha vinto la gara. Bagnaia ha corso nel deserto da -91 punti, che se fosse una partita a pallone significherebbe ripartire a recupero iniziato. Serviva credere in sé stessi, avere fede. Quel casco lì, a Misano, era giusto. Quel colore dentro al numero di gara, tutto rosso da quando è salito su di una moto, era giusto, era il suo. Bagnaia la Ducati l’ha presa come una promessa, voleva quella. L’ha avuta e l’ha resa grande.
Oggi c’era un peso spaventoso sulle spalle di Pecco, un peso fuori scala. Un peso che è già grande quando si firma per quell’azienda lì, la bestia rossa. La Ducati che ha fame e non accetta mai un no, ed è un peso che cresce per chiunque se la porti addosso fino a schiacciarti. È successo ad Andrea Dovizioso, bravissimo a far crescere quella moto, ed è successo a Jack Miller che ha sofferto ancora prima che iniziassero a correre, perché era già destinato ad andarsene. Pecco quel peso l’ha distrutto. Alla Ducati sulle sue spalle si aggiungeva l’eredità di Valentino Rossi, con l’opportunità che gli ha dato e il suo ultimo mondiale nel 2009. Francesco l’ha vinto col sangue questo mondiale, mai in discesa dall’inizio, mai facile nemmeno arrivando con quei 23 punti perché sbagliare l’avrebbe reso protagonista di una lapidazione in pubblica piazza.
Lui è stato zitto. Non ha parlato quando gli si chiedeva della rimonta, di cosa bisognava fare. Non ha parlato dopo quelle quattro vittorie in fila che hanno riacceso l’idea di arrivare in fondo. Non c’era niente da dire. E all’ultima gara, appena dopo il via, Pecco e Fabio si sono guardati in faccia, coltello in mano, niente maschere: voglio vincere, questo sono. È volata un’ala, ognuno è andato dove doveva e sono tornata a giocarsela coi nervi e la testa. Oggi Pecco è libero. Leggero. Campione del mondo. No, non è normale, è l’impresa eccezionale.