C’è una cosa che i piloti non fanno mai abbastanza: raccontare la fatica. Perchè sì, fanno quello che amano e magari la fatica neanche la sentono, però in tempi di social e impressioni che si costruiscono nello spazio di un post diventa fin troppo facile bollarli come “fortunati”. Lo sono, perché hanno potuto contare su un talento immenso, ma per permettere a tutto quel talento di esprimersi si è passati, e si passa, per i sacrifici. Allenamento, diete allucinanti, orari assurdi, parole pesate cento volte prima di pensare anche solo di pronunciarle e, quasi sempre, infanzie non negate (perché niente è negato in nome di un sogno) ma quasi. Senza parlare, poi, di tutto quello che spesso hanno dovuto fare le famiglie. Sì ok, ogni tanto qualcuno lo racconta, ma è come se ci fosse sempre un po’ di timidezza, quasi una sorta di vergogna, nel dire quello che realmente è stato per la stragrande maggioranza delle famiglie dei piloti: periodi in cui la benzina in garage c’era sempre, ma il pane in tavola rischiava spesso di non esserci. Perché correre costa. E perché più si va avanti e più le cifre si fanno importanti. Faraoniche. E impossibili per tasche comuni a meno di scelte folli e veri e propri all in.
Sì, c’è anche chi è cresciuto nella bambagia e ha seguito strade più facili dal punto di vista dei sacrifici economici, ma sono pochi. Sono di più, invece, quelli come Pedro Acosta. Ecco, adesso a raccontare – questa volta senza troppe timidezze e spiegando davvero quanto e come hanno rischiato – ci ha pensato suo padre, nella seconda parte dell’intervista rilasciata a PaddockGP. Lui e la sua famiglia sul polso destro di quel bambino che sembrava bravo (nonostante all’inizio non ottenesse i risultati) ci hanno messo un peschereccio intero che conteneva dentro la storia di tutta una famiglia. “Ho ipotecato la barca –ha ammesso - Se non avesse funzionato saremmo rimasti senza niente di niente e avremmo pure dovuto continuare a pagare il debito. Ma alla fine lo rifarei. Perché non volevo avere rimpianti”.
La decisione di scommettere sul futuro di Pedro è stata condivisa da tutta la famiglia. “Noi veniamo dal mare, è il mare che ci ha sempre dato da mangiare. E non c’era un piano b. Ma era giusto, sentivo che era giusto e ne ho parlato con mio padre (il nonno di Pedro). E abbiamo deciso di provare – racconta ancora - Capisci cosa intendo? Per tutta la vita siamo stati pescatori, abbiamo vissuto e abbiamo ciò che abbiamo grazie al mare. Tutta la nostra famiglia dipende da questa barca”. Quando Pedro ha iniziato a emergere nel campionato spagnolo, il padre ha sentito la pressione e l'urgenza di agire. “Mio padre, il nonno di Pedro, mi disse 'Il ragazzino vince ogni gara, non possiamo deluderlo e se si rompe qualcosa o ha bisogno di qualcosa dobbiamo darglielo’. E mi ha dato carta bianca per fare quello che c’era da fare”. Questa libertà di azione ha permesso a Pedro di esplorare il suo potenziale senza stare a preoccuparsi troppo di cosa significasse, ogni volta, dover firmare assegni. E di quanta di quella “follia piena d’amore e fiducia” fosse capace la sua famiglia.
Anche perché, nonostante l'amore per le moto, la famiglia Acosta non ha una tradizione nel motorsport. “Non c'erano piloti, nemmeno amatori, e nemmeno qualche appassionato con una particolare manetta” - confessa il padre. Eppure, fin da piccolo, Pedro ha sempre guardato con ammirazione i grandi campioni come Kevin Schwantz e Wayne Rainey. “Ma io non gli ho mai detto di ispirarsi – aggiunge il babbo di Acosta – Gli ho sempre detto che il limite lo fissa da solo, nella sua testa. Niente è impossibile, devi solo dare il 100% per onorare ciò che ami di più al mondo e provare a realizzare il tuo sogno”.
Le prime gare di Pedro sono state un mix di emozioni e apprensioni. “Me lo ricordo. La seconda o la terza gara che fece con la minimoto, piangeva, era nervoso - racconta il padre, evidenziando il momento cruciale in cui ha deciso di intervenire – Gli dissi che non mi interessava ultimo o primo, ma che volevo vederlo divertirsi veramente e da lì le cose sono cambiate. Era uno sport che lo appassionava. È la cosa migliore del motociclismo. La parte più bella è stato il percorso che ha portato al mondiale. La strada che fai con tuo figlio è tutto. Nessuno te la porterà mai via”. E forse è anche ciò che resta pure e autentico quando finalmente il sogno si realizza e quando quel figlio arriva. “Quando arrivi al Mondiale – ha concluso - ci sono più interessi, più pressioni, è diverso. È già professionale. Per non parlare, poi, della MotoGP”.