Valentino Rossi è l’unità di misura della nostra vecchiaia. L’avevamo scritto qualche anno fa, quando cominciava a diventare chiaro a tutti che il 46 stava iniziando a pensare a qualcosa da fare dopo oltre un quarto di secolo nelle corse. Una decisione sicuramente sofferta per lui e che in qualche modo faceva male pure a tutti noi. Perchè con Vale siamo stati ragazzini che pensavano solo alle penne, ai carburatori da diciannove e alle luci di scarico da limare insieme ai travasi. Perchè poi con Vale siamo diventati pure un attimo più pronti a qualche responsabilità ulteriore, mentre quella passione aumentava di cilindri e cilindrata e qualche capello bianco annunciava che ci sarebbe stato da cambiare ancora. Siamo cambiati, ma Vale stava ancora lì, a vincere – o quantomeno a provarci – mentre cercava di sedare la fame di velocità e vittorie anche in mezzo a quelli giovani di brutto. E’ stato un’ancora, un simbolo a cui aggrapparsi quasi per raccontare ai noi stessi che ok i quarant’anni, ma Vale a 40 se la gioca con tutti e fa esattamente quello che faceva a sedici.
Poi, però, pure Vale ha detto basta. E in quelle lacrime di inevitabile commozione per un campione che ha scritto la storia, insieme alla riconoscenza per tutto quello che ha fatto e che è stato, c’era pure un po’ d’egoistica amarezza. Perché lui che, smettendo, ammetteva di cominciare a essere vecchio, stava in qualche modo facendo scontrare tutti noi con la stessa realtà: cominciamo a essere vecchi. Non sarà più domenica. L’abbiamo pensato tutti, anche quelli che Vale non l’hanno amato mai, perché quell’addio era molto di più di un campione che diceva basta. E perché nel frattempo molti di noi facevano già i conti con tanti altri segnali poco piacevoli. E pure con le responsabilità che nel frattempo erano diventate molte di più e pure più serie. A volte sofferenze. Anche grandi. Grandi tanto. Mentre “le domeniche” intese come giornate di levitas (leggerezza, ma quella che pesa e è profonda) diventavano sempre meno. O proprio zero. Lavoro, figli, crisi, inadeguatezze: vita da grandi, insomma. E non ci siamo accorti che nel clamore di quell’addio Vale aveva detto anche altro: “io proverò a vincere ancora, ma con le macchine”.
Pochi c’hanno creduto. Ma in Valentino Rossi, che è l’icona vera di quella levitas citata prima, c’è tanto – senza che lui lo sappia o lo faccia pesare – pure di tutta la filosofia del passato. E viene in mente Eraclito e quel suo “spera l’insperabile perché è qualcosa che non si trova”. Ci ha di nuovo dato una lezione. Dimostrando che “sperare” è sinonimo esatto di “mettersi al lavoro”. Nel suo caso per ricominciare. A vincere come ha fatto ieri a Misano, ma con le auto, a salire sul podio come ha fatto sempre ieri a Misano, ma di notte. Dentro una domenica (e un sabato, per la verità) che è “ancora domenica”. Può essere ancora domenica. E lo sport non c’entra niente. E tutto sommato non c’entra niente nemmeno il gesto di un campione che s’è portato a casa altri due trofei e non gli basta. Valentino Rossi, anche adesso che è vecchio, lavora per l’insperabile, spera l’insperabile, e non si limita alla fortuna, che è qualcosa che si cerca o al limite che si trova accidentalmente, e meno che mai alla gloria, che è invece qualcosa che si insegue, o alla soddisfazione, che è qualcosa che prevede un accontentarsi. Valentino Rossi spera: non cerca, non trova, non insegue, non s’accontenta. Spera. E tutto il resto può venire poi da solo. Esiste qualcosa di più potente da insegnarci? E magari da insegnare pure, dopo averlo assimilato, da insegnare ai nostri figli con l’esempio?
Chi fa il mestiere del raccontare ha una regola: l’io non deve esistere. Però a volte qualcosa di personale ci può pure stare. E uno una licenza se la prende, soprattutto se scrive su pagine di libertà cruda e cazzonesimo cucinato come MOW. E quindi una storia la racconto. E’ la storia di un sacco di domeniche che non c’erano più. Di cose che vanno storte. Di futuro che sembra negarsi e piccoli segni a cui fare caso. E a cui magari aggrapparsi, anche se sono piccoli e magari non possono tenere. E’ la storia di un’insperabile sperato: può essere ancora domenica. E è la storia della domenica di Vale che vince ancora e sale sul podio a Misano. Ecco, dentro quella domenica ci sono anche una figlia e un padre terrorizzati dall’idea che potesse mai più essere domenica, ma che da un po’ dicevano che se mai avessero avuto un gatto sarebbe stato nero. E che un gatto nero se lo sono ritrovato, esattamente in quella domenica lì di maggio, praticamente dentro la macchina. Sì e no mezzo chilo di pelo. Nel bel mezzo di uno spazio di tempo preso per cercare un po’ di levitas dentro al buio e condividere quello che restava tra la gara chiusa con la vittoria di Vale e quella che sarebbe andata in scena dopo il calare del sole. Anche se il sole non cala mai veramente. E nemmeno il buio è mai abbastanza nero. Di nero vero, invece, c’era quel gatto. Da portare a casa assolutamente. E che, una volta a casa, ha scelto come tana un casco modulare lasciato aperto lì dall’ultimo giro in moto, dietro a un paio di guanti. Un gatto a cui dare un nome solo: Quarantasei, 46 per gli amici. Può essere ancora domenica. Con tutto quello che può significare: per una figlia, per suo padre, per tutti quelli che hanno la forza e il coraggio di sperare l’insperabile. Valentino Rossi a Misano ce l’ha ancora una volta ricordato: può essere ancora domenica. Anzi, ce l’ha insegnato con l’unico metodo che funziona sempre veramente: l’esempio.