Sì, era chiaro e inevitabile che alla fine di questa stagione Andrea Dovizioso si sarebbe ritirato. Eravamo preparati, lui stesso qualche settimana fa l’aveva dichiarato senza fronzoli: “Questa sarà la mia ultima stagione in MotoGP, non c’è alcun motivo che mi spinga a continuare”. Poi, alla vigilia di Silverstone, il Dovi ha comunicato che non finirà nemmeno la stagione, che calerà il sipario a Misano, tra amici e fan. È una scelta ponderata, ragionata, razionale, comprensibile, come sempre – d’altra parte – quando si parla di Andrea. Prolungare l’agonia di questo 2022 non aveva alcun senso, meglio scendere dalla sella nella sua Romagna, sull’asfalto del circuito intitolato a Marco Simoncelli, tra il calore della gente. Eppure c’è un fastidio in sottofondo che fatica a sopirsi. Un qualcosa che resta e punge, come deglutire quando si ha il mal di gola. Mandare giù, sperare di non sentire dolore e, puntualmente, accorgersi che stare bene è ancora un ricordo, o una speranza.
Andrea Dovizioso si mostra sereno, ma nei suoi occhi quella traccia di una nostalgia lontana, di un passato non del tutto compiuto, permane. Il Dovi non meritava di chiudere con Ducati da separato in casa, di remare nelle sabbie mobili della MotoGP con una Yamaha clienti. È complicato capire se quella nota opaca nel suo sguardo si riferisca al mancato accordo con Aprilia, al titolo mondiale sfumato quando era in grado di battere Marquez, o al desiderio che la sua famiglia restasse unita ai tempi in cui lui aveva nove anni e la sua vita cambiò. O tutte queste cose, e magari molte altre, insieme. Il fatto è che un velo di rimpianto il Dovi ce l’ha e lo trasmette, nonostante – timido e intelligente com’è – faccia di tutto per nasconderlo. Perché quando un pilota si ritira, spesso, si è portati a dimenticare i rimpianti e a ricordare solo la metà luminosa degli eventi, ma Andrea ci ha insegnato la bellezza del realismo, della profondità, delle ombre che si celano tra le sfumature di un ragionamento.
“Sicuramente Dovi non deve avere rimpianti, ha beccato un’era della MotoGP difficile e scomoda. Secondo me lui è sempre stato caratterizzato dal fatto di non voler mai giocare come se fosse un personaggio, è sempre stato fuori dalle luci della ribalta. Ma l’ho apprezzato molto per questo. Penso che piloti come lui debbano essere più riconosciuti, perché è andato forte, ha fatto veramente paura” – ha ricordato Luca Marini, che nella maniera analitica di porsi assomiglia molto ad Andrea. E ha ragione. Dovizioso è l’italiano più vincente nella massima categoria dopo Agostini e Rossi. Ha duellato per la vittoria in sei occasioni contro Marc Marquez, battendolo cinque volte. Dovi è stato l’unico rivale del Cabroncito che è riuscito ad avere sistematicamente la meglio su di lui, talmente umile da ammettere che se avesse portato la sfida sul piano dell’aggressività non ci sarebbe stata storia. Andrea spostava la partita sull’astuzia, spremendo le meningi di quel cavallo bianco che è disegnato su metà del suo casco, e vinceva, contro il miglior Marquez, alla Dovizioso.
Andrea ha vinto due volte in Italia, una al Mugello e una a Misano. Sul podio non c’era Valentino, eppure l’intera marea gialla, in entrambe le occasioni, invase la pista gridando il nome del Dovi. “Io ho una caratteristica un po' particolare: guardo sempre avanti. Che da una parte è una qualità ma adesso, dopo qualche anno, ti rendi conto che sarebbe stato meglio godersi certe situazioni, piuttosto che pensare alle successive”, raccontava Andrea rivolgendosi al passato. Eccolo quel nodo alla gola. In tutte le storie belle c’è un pizzico di malinconia.