Il caso dell’atleta algerina Imane Khelif, esclusa dai Giochi Olimpici di Parigi 2024 in seguito a una verifica sul livello di androgeni, offre uno spunto concreto per interrogarsi su un tema controverso e urgente nello sport contemporaneo: chi ha diritto a competere nella categoria femminile? È da questa domanda che muove l’articolo del filosofo Jon Pike e della biologa Emma Hilton, che sviluppa una risposta sistematica e filosoficamente strutturata, in netta opposizione alla posizione di autori come Bowman-Smart et al., i quali difendono la legittimità della partecipazione di atlete come Caster Semenya (e, per estensione, come Khelif) sulla base della loro identità legale e sociale di donne.
Pike e Hilton partono da una critica centrale al ragionamento giuridico e identitario che domina parte del dibattito: “Il sesso legale non segue il criterio di sesso rilevante per lo sport”. Questo è il cuore dell’argomentazione. A differenza dei criteri elencati da Bowman-Smart et al. – essere legalmente donna, essere state assegnate come tali alla nascita, essere cresciute come donne, identificarsi come donne – Pike e Hilton sostengono che questi elementi non hanno alcuna rilevanza morale o biologica nello sport, perché non dicono nulla sui vantaggi fisiologici maschili che sono alla base dell’istituzione stessa della categoria femminile.

Nel caso di Khelif, così come in quello di Semenya o Wambui, gli autori rifiutano il ragionamento secondo cui l’identità legale dovrebbe determinare l’eleggibilità sportiva. A loro avviso, ciò che conta è la biologia funzionale, cioè il percorso di sviluppo corporeo orientato alla produzione di piccoli gameti mobili (spermatozoi). Le atlete con condizioni DSD 46XY come la 5-alfa reduttasi (5-αRD), pur potendo avere genitali esterni femminili ambigui e identificarsi come donne, sono maschi dal punto di vista biologico, perché il loro corpo si è sviluppato attorno a un assetto riproduttivo maschile.
Il punto chiave, allora, è che tali atlete godono di un “vantaggio maschile”, che non è semplicemente una proprietà individuale (come avere le gambe lunghe o l’allenamento migliore), ma una rete sistemica di tratti fisiologici – massa muscolare, densità ossea, capacità aerobica – che derivano direttamente dal loro essere maschi. È questo vantaggio – causato e non solo correlato alla mascolinità – che rende la loro partecipazione nella categoria femminile ingiusta. Come scrivono Pike e Hilton: “È ingiusto consentire un vantaggio di categoria in una categoria creata per escluderlo”.

La sentenza del Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS) del 2018 viene ripresa con approvazione: “È la biologia umana, non lo status giuridico o l'identità di genere, a determinare in ultima analisi quali individui possiedono i tratti fisici che danno origine a tale vantaggio insuperabile”. Questa citazione del TAS è centrale per il loro ragionamento: lo sport non dovrebbe proteggere le identità, ma le condizioni fisiologiche che giustificano la distinzione tra categorie.
Nel caso di Imane Khelif, le conclusioni sono simili a quelle tratte per Semenya: se Khelif è portatrice di una condizione DSD che comporta lo sviluppo attorno a testicoli interni e produzione di testosterone a livelli maschili, allora possiede quel vantaggio maschile che giustifica la sua ineleggibilità alla categoria femminile. Pike e Hilton sostengono che questa non sia una discriminazione, ma una conseguenza eticamente giustificata della struttura stessa dello sport agonistico. Semplicemente, “non è donna nel senso che conta nello sport”.
Questo approccio non nega l’identità di genere delle atlete né il loro sesso legale: “Non la inseriamo in un genere errato. Ma neghiamo che Semenya sia biologicamente femmina”. È una distinzione tra genere e sesso che, secondo gli autori, è fondamentale per preservare l’integrità della categoria femminile. Per loro, definire “femminile” nello sport significa identificare chi non ha accesso ai vantaggi causati dalla mascolinità biologica. Qualsiasi altro criterio, come quello legale o psicologico, introduce un margine di arbitrarietà che mina l’equità della competizione.

Pike e Hilton accusano i loro avversari di fare filosofia con le mani legate, di assumere come ovvio ciò che invece andrebbe sottoposto a critica. “Ciò che vogliamo di più”, scrivono, “è che un’atleta sia biologicamente femmina, con un corpo organizzato attorno a grandi gameti statici”. Solo così si evita che la categoria femminile venga snaturata.
Nel panorama sportivo attuale, dove casi come quello di Khelif si moltiplicano e le federazioni internazionali tentano di conciliare pressioni legali, sociali e scientifiche, la posizione di Pike e Hilton risalta per la sua coerenza teorica. Contro l’idea che l’identità giuridica basti per determinare l’eleggibilità sportiva, propongono un modello fondato sulla biologia evolutiva e funzionale, che assume come punto di partenza la funzione stessa dello sport femminile: proteggere chi non ha un vantaggio maschile. E in questo modello, per quanto controverso, Imane Khelif – come Semenya – non ha diritto a competere nella categoria femminile.
