Quando pensi a un allenatore di calcio non pensi a Stefano Pioli. La mente vola, danza, dribbla tra i nomi dei coach che hanno fatto grande questo sport e si ferma su personaggi storici come Trapattoni, Lippi, Ancelotti, Sacchi, Capello oppure i grandi manager europei come Ferguson, Mourinho, Zidane, Guardiola e Klopp, per rimanere sull’attualità, senza dimenticare i sudamericani Bielsa, Sampaoli, Tite o Tabarez, ma a nessuno verrebbe mai in mente il nome di Stefano Pioli.
L’allenatore del Milan ha recentemente scacciato dalla mente della dirigenza rossonera le ombre di un cambio in panchina in favore del tedesco Rangnick, responsabile dello sport e dello sviluppo calcistico del gruppo Red Bull, grazie alle prestazioni in campo, alla professionalità dimostrata in panchina e in conferenza stampa e al suo serafico charme da emiliano doc. Pioli ha dimostrato con i risultati e il gioco come l’allenatore non debba mai mettere le sue idee davanti ai calciatori e alla squadra, ma all’opposto come debba sacrificare i suoi dettami in funzione di ciò che è meglio per il gruppo. Prevaricare i giocatori per ideologie tattiche non ha alcun senso, l’unico risultato sarebbe quello di forzare la mano su nodi faticosi da sciogliere e di preferire te stesso alle qualità dei calciatori che sono la materia prima su cui lavorare e Pioli ha saputo proprio fare questo: lavorare per tirare fuori il meglio da ogni calciatore della rosa.
Quando a ottobre dello scorso anno Giampaolo è stato esonerato (uno che pronti via ha impiegato i giocatori in ruoli sbagliati solo per adattarli al suo modulo) ed è stato sostituito da Stefano Pioli, la stampa italiano lo ha etichettato come un “normalizzatore”, sottovalutando i suoi meriti sportivi e soprattutto umani, anche perché il Milan aveva bisogno anche di questo tipo di persone: umili lavoratori, saggi fratelli maggiori, organizzatori di calcio più che innovatori tattici.
Pioli non è al Milan per caso e non è un allenatore che è stato subito buttato nella mischia come, sempre al Milan, successe a Clarence Seedorf, Filippo Inzaghi e a Gennaro Gattuso (anche se quest’ultimo ha più meriti che demeriti), ma anzi Pioli ha fatto la gavetta, partendo dalle giovanili del Bologna, passando per la Serie B e poi la lotta per non retrocedere in Serie A fino a un grande palcoscenico come quello biancoceleste. Con la Lazio arriva in finale di Coppa Italia, chiude terzo in campionato portando la squadra del presidente Lotito in Champions League e perde contro la Juventus la Supercoppa italiana. La parentesi successiva è quella colorata di nerazzurro, ma nonostante un periodo felice di nove vittorie consecutive l’Inter di Pioli non vola. L’esonero poteva essere evitato, ma la dirigenza voleva un traghettatore e Pioli era a fine corsa.
Pioli ha vissuto di tutto: presidenti killer, come Zamparini e Lotito, cambi di società, malumori dirigenziali, caos di calciomercato, ma è sempre andato avanti, lasciando le lamentele fuori dallo spogliatoio e soprattutto fuori dal campo. Un comportamento che gli ha permesso di tirarsi su le maniche, di lavorare, di faticare, di ragionare insieme ai giocatori e per i giocatori. La grande forza di Pioli è sempre stata la gestione dei singoli e, grazie a questo di conseguenza, del collettivo. Quando dall'esperienza interista Pioli passa a quella Viola dentro di sé sente un fuoco che è quello della rinascita, della passione, della fatica attraverso cui dimostrare il proprio valore e quello dei suoi giocatori e non è un caso che Federico Chiesa diventa un giovane ambito da tutte le squadre più importanti a livello internazionale. Il lavoro sui giovani è uno dei punti di forza di Pioli che sa ammorbidire i difetti dei suoi pupilli e rafforzare i punti di forza, mettendoli in evidenza così da esprimere per tutti il miglior gioco possibile, ottimizzando le capacità delle risorse in rosa. Ma come dicevo, oltre che un allenatore di grande spessore Pioli è un uomo fatto di emozioni, un uomo di cuore, di sorrisi e lacrime.
La morte di Astori, il suo capitano alla Fiorentina, lo ha spezzato a metà, come quando perdi un tuo caro, perché il rapporto che ha con i suoi giocatori è quello di un fratello maggiore, di un padre, di una guida. Un profeta che prova a indicare una strada che spesso può rivelarsi difficile, complicata, piena di insidie, ma che se affrontata insieme riempierà comunque il viaggio. E quella botta lì è un livido sulla pelle di Pioli che non andrà più via, ma che gli ha insegnato ancora di più cosa significa essere un allenatore e una persona con dei valori e delle prospettive.
Da ottobre a oggi, vestito di rossonero, Pioli ha sovvertito ogni pronostico, rilanciato giocatori che boccheggiavano e avevano perso fiducia in loro stessi, riuscendo a riprendere in mano una squadra fatta di tanti giovani e in questo l’aiuto carismatico di Zlatan Ibrahimovic ha sicuramente aiutato, ma nonostante l’ingombrante personalità dello svedese Pioli ha saputo gestirlo, sostituendolo anche contro la sua volontà, e mettendolo sì al centro del progetto tattico e tecnico, ma senza sacrificare il gruppo. Risultati, mentalità e profilo basso. Il carattere da gentleman di Pioli, che non fa il piangina quando non vince e non accampa scuse sugli orari delle partite, si sposa benissimo con l’idea che ha questa dirigenza del futuro del Milan.
Ché poi, va detto, ogni allenatore ha il suo carattere e non tutti i giocatori hanno bisogno dello stesso trattamento, ma Stefano Pioli è riuscito a valorizzare le materie prime messe a disposizione raccogliendo i frutti del lavoro svolto. Ed è proprio questo che deve saper fare un allenatore, mettere in evidenza le qualità dei giocatori della sua squadre e non usare la squadra per mettersi in evidenza. Pioli non è un normalizzatore, è un profeta, è un pastore che indica la strada al gregge, è un docente che insegna le basi del calcio lasciando il libero arbitrio ai suoi studenti migliori e se il Milan non l’avesse capito, preferendo Rangnick, sarebbe stato un errore, ad oggi, imperdonabile.