L’ingiocabile terreno di San Siro - l’aggettivo è del tecnico nerazzurro Simone Inzaghi dopo la gara tra Inter e Venezia - è in fase di sostituzione. Si rifà il look durante la sosta, sarà pronto per il derby per la gioia delle tv e dei calciatori più fighetti, quelli che guai a sporcarsi i pantaloncini, a ritrovarsi lo schizzo di fango sul tatuaggio in bella mostra. Orrore instagrammatico, vade retro. Che poi, campo ingiocabile e alibi conseguenti - l’impossibilità di costruire trame fluide, il talento frenato, varie ed eventuali - valgono quel che valgono: aprile 1998, Mosca, un fenomeno su un terreno improponibile per davvero, Ronaldo Luis Nazario da Lima, ha dimostrato una volta per tutte che, se sei capace, non c’è pantano che tenga. E pure se sei scarso.
Il fango, peraltro, non c’è più. L’erba è un misto tra naturale e sintetica, il fondo è una manciata di centimetri di terra, ghiaia e sabbia. Il prato è sempre verde, casomai grigio dove l’erba non c’è: non esistono più i campi fangosi, nel calcio d’élite: da qualche tempo divise, pantaloncini e calzettoni dei calciatori restano pressoché lindi, bagnati e madidi senz’altro, ma la poltiglia del terreno bagnato non li sporca, appunto perché non c’è. Un significativo vantaggio per il calcio televisivo: l’impatto sullo schermo migliora, il terreno è ben pettinato e patinato, senza contare che la cura dei campi di gioco presuppone anche qualche posto di lavoro in più, fra le aziende del settore e gli specialisti assunti dai club e che pure gli infortuni, per i quali spesso viene incolpata la superficie, hanno origini diverse.
Eppure i campi perfetti, e persino quelli imperfetti come quello di San Siro sino a pochi giorni fa, allargano la distanza tra il professionismo e il dilettantismo, allontanando ulteriormente il calcio dei grandi da quello degli amatori e dei ragazzini, coloro che il gioco - quando ancora è un gioco - cominciano ad amarlo anche perché sporcarsi di fango in una partita di calcio è socialmente accettato persino dai genitori. I campi melmosi sono memoria gradevole: l’irresistibile tentazione della scivolata senza senso, le traiettorie rasoterra influenzate dall’attrito, la soletta di fango battuto che si avvinghia ai tacchetti e ne prende la forma e, alla fine, le scarpe che vanno sbattute per toglierlo, il fango, rigorosamente facendo casino e beandosi dell’effetto sonoro, altrimenti si gode solo a metà.
La mota dei campi che, nell’espressività giornalistica più pigra, venivano definiti “di patate”, era condizione tipica delle partite invernali e primaverili sino a metà anni ’90, quindi la tecnologia ha compiuto passi significativi: sintetici misti naturali, ibrido, prato rinforzato, intaso sabbioso; tutti termini ben noti agli addetti ai lavori e pure a chi gioca. Saranno anche più verdi i campi, ma pure più abrasivi, e indiscutibilmente meno divertenti soprattutto per i più piccoli dal momento che, in diversi luoghi, si stanno riconvertendo in sintetico i terreni di gioco delle squadre giovanili. Dopo tutto, il pantano insegna la difficoltà, costringe a uscire dalla comfort zone, sporca, e per questo, filosoficamente, sarebbe assai più coerente con il calcio d’élite che con quello dei bambini.
Poi, che sia più facile giocare su un terreno perfetto non ci piove - appunto - ed è proprio questa rincorsa alla semplicità che rende sempre meno capaci di affrontare ciò che è complesso, nello sport come nella vita. E nel calcio, intanto, i campi che migliorano cambiano anche i calciatori. Una curiosa ricerca pubblicata nel 2019 sull’International Journal of Sports Science & Coaching ha sostenuto, basandosi sulle caratteristiche fisiche degli atleti, che si è avuto un cambiamento morfologico dei calciatori della massima divisione inglese negli ultimi quarant’anni (precisamente fra il 1973-74 e il 2013-14, il periodo preso in considerazione) e che questo sia correlato al miglioramento delle superfici, il cui perfezionamento, assieme alla maggiore velocità del gioco e all’intensità delle gare, ha portato alla sostituzione del classico giocatore mesomorfo - il tracagnotto alla Wayne Rooney, per intenderci - con il tipo ectomorfo alla Gareth Bale o Harry Kane. Una sorta di darwinismo applicato al calcio - secondo il professor Alan Nevill che ha coordinato i ricercatori delle università di Wolverhampton, Cardiff e Portsmouth - nel quale i terreni artificiali hanno giocato un ruolo non secondario.
Ma sempre lì si torna: se sai giocare, nel pantano non disimpari. E, se non sai, non migliori.