Settantacinque anni da fuoriclasse e da guastafeste. Da enfant terrible e da eroe popolare. Da campione che non voleva essere un esempio ma che lo è diventato lo stesso. È questo l’Adriano Panatta che si racconta ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, oggi con i capelli più grigi, la voce sempre affilata, e lo stesso sguardo di uno che ha visto tutto, ma continua a stupirsi. Anche della propria memoria. “Il mio primo ricordo? Il motorino Solex che mi regalò papà Ascenzio. Avevo 14 anni. Mi sentivo il padrone del mondo”. Ma scavando tra le pieghe della nostalgia, emerge anche qualcosa di più lontano. “È il 1957, ho sette anni. Sono al tennis club Parioli, mio padre ne è il custode. Il conte Vaselli torna dall’America con la prima macchinetta telecomandata. Noi giocavamo ancora con il Pinocchio di legno. All’improvviso, la modernità”. E poi, la racchetta: “Anche quella me la diede mio padre. Era da adulto, aveva tagliato il manico. Giocavo da solo, contro il muro della casa del custode. Papà ci aveva dipinto una riga all’altezza della rete. Così, ogni colpo aveva un confine, una regola, una sfida”. Chi lo conosce bene, sa che Panatta non è mai stato uno da educazione convenzionale. A insegnargli la geometria del tennis ci pensò Wally San Donnino, una maestra “severissima, che non diceva mai bravo a nessuno”. E Nicola Pietrangeli. Anzi, prima ancora, la sua irriverenza.

“Lo fecero palleggiare con i più bravi della scuola Coni. Io ero tra quelli. Scendevo sempre a rete, anche con lui. A un certo punto mi disse: ‘A regazzi’, che fai, vieni a rete con me?’”. E proprio di Pietrangeli, Panatta ha raccontato che “quando papà annunciò: ‘Mi è nato un figlio!’, Nicola rispose: ‘E chi se ne frega!’. Stava giocando a calcetto, che era stato inventato proprio lì, al Parioli. Tanti tennisti giocavano anche a calcio. E io non facevo eccezione”. “Giocai in Prima Categoria, tra il 1975 e il 1976. Ero a Montecatini, mi prese il Montemurlo. Feci sette o otto partite. Ero centravanti di sfondamento, fisicamente prestante. Feci due gol. Ma soprattutto facevo spazio”. Poi arrivarono le vittorie, i viaggi, l’America. “Il mio primo viaggio negli Stati Uniti fu anche l’ultimo anno di tennis di Pietrangeli. A Hollywood mi portava a giocare il doppio a casa di Anthony Quinn, sul Sunset Boulevard. Ma spesso dovevo difenderlo da sé stesso. Nicola è sempre stato così: polemico, egocentrico, convinto di essere il migliore anche a calcio. Una volta disse a Rivera: ‘Se avessi giocato a calcio, sarei stato più forte di te’. Rivera lo guardava come un matto”.

Inevitabile che a un certo punto esplodesse anche lo scontro generazionale. “Fu cacciato da capitano della Davis perché non lo sopportava più nessuno. I miei tre compagni, Belardinelli, il presidente Galgani. Io lo difendevo. Ma a volte era indifendibile. Aveva l’atteggiamento da Marchese del Grillo: ‘Io so’ io, e voi…’”. Eppure, tra Panatta e Pietrangeli resta un affetto enorme. “Gli voglio molto bene. Gli mando un forte abbraccio per la perdita del figlio”. Il tennis, però, era solo una parte. Dentro la vita di Adriano c’era la politica, quella vera, respirata in casa. “Sono di sinistra per nascita e per cultura. Mio nonno era socialista, amico di Nenni. Anche papà era socialista. Cresciuto in quell’aria”. Non a caso, Panatta non perse occasione per sfidare il suo maestro Belardinelli, “un vecchio fascista, che aveva insegnato il tennis a Mussolini. Ne andava fiero. Ma raccontava che il Duce non aveva il rovescio. Ogni volta cercava di convincerlo: ‘Duce, oggi miglioriamo il rovescio’. E lui: ‘Camerata Belardinelli, noi tireremo sempre diritto!’”.

A tavola, Panatta provocava. “Portavo l’Unità. Poi il Manifesto. E lui: ‘Che è ’sta roba? Mettila via!’. E io: ‘E che, non se può legge ’n giornale?’”. Ma Belardinelli era anche l’uomo delle scommesse. “Ci portava ad Agnano, a Napoli, prima dai cavalli, poi dai cani. Era il massimo esperto vivente delle corse di cani. Ma voleva proteggerci dagli allibratori. Se vincevamo, divideva. Se perdevamo, ci restituiva i soldi”. E la Davis? “Non chiamatela più Coppa. Noi giravamo il mondo, per un anno intero. Era più importante di Wimbledon. Ora dura tre giorni. Una barzelletta”. I racconti si susseguono. Una semifinale a Buenos Aires, un’esibizione a Caracas con Borg e Gerulaitis. “Facemmo l’alba per via dell’aereo rotto. Chiesi a Ilie: ‘Giochiamo sul serio il primo set, poi ci regoliamo’. Lui accettò, ma con una condizione: ‘Non farmi la palla corta, non ho voglia di correre’. Primo punto: palla corta vincente. Mi ringhiò per tre ore”. E con Borg? “Un matto calmo. Siamo sempre andati d’accordo. Volevo sempre giocare con lui: il suo gioco si adattava al mio. Non saliva mai a rete, io potevo gestire il punto. L’ho battuto sei volte. Le uniche due sconfitte della sua carriera a Parigi furono contro di me”. Una di queste nel 1976, l’anno della consacrazione. “Vidi il match degli ottavi tra Jauffret e Borg al caffè Flore di Saint-Germain. Tifavo Borg. Perché sapevo che con lui avrei dato il meglio”.

E Nadal? “Una volta perse da Djokovic a Parigi. Era stanco, sudato, incazzato nero. Lo incrociai negli spogliatoi. Avrei voluto smaterializzarmi. E invece mi cedette il passo: ‘Prego, Adriano’. Questo è avere educazione. Tenuta morale. Classe”. Ma Panatta non è stato solo tennis. C’è Villaggio, Tognazzi, Loredana Bertè, le serate al Santa Lucia di Milano. “Arrivò con una pelliccia di scimmia. Andai via con lei. Mita Medici, con cui stavo, era una ragazza deliziosa. Mi comportai come una merda. Me ne sono sempre vergognato”. Poi ci fu anche Renato Zero, metallizzato sotto il balcone di piazza Venezia. “Era un marziano. Un personaggio meraviglioso. Gli anni ’70 furono meravigliosi”. A chi gli chiede quante donne abbia avuto, risponde con Agnelli: “Parlo con le donne, non delle donne”. E Agnelli lo conobbe davvero. “Una notte chiamò casa di Malagò. Risposi io: ‘Non glielo posso passare’. ‘Ma io sono Agnelli’. ‘E io sono Panatta’. Poi, parlando con Malagò, disse: ‘Però quel Panatta… che caratteraccio’”. Oggi vive a Treviso. “Mi sono risposato a settant’anni. È amore, no?”. Federer, Nadal, Djokovic? “Federer è il tennis. Ha fatto cose che so che non si possono fare. Ma lui le faceva. Oggi ogni tanto le fa Alcaraz. Ha punte più alte. Sinner è più costante. Un caterpillar. Ha un gioco elementare, ma efficacissimo. Giocheranno tante finali, come Federer e Nadal. Finora ha vinto di più Alcaraz”.