La prima volta che sono stato a vedere Valentino Rossi in fuoristrada era il 2009, a Cavallara. Un evento di beneficienza che per noi era soprattutto una Royal Rumble del motociclismo. Valentino l’aveva organizzato, di piloti però ce n’erano moltissimi: Andrea Dovizioso, Loris Capirossi, Marco Melandri, Kevin Schwantz. Ero con un amico, avevamo i cinquantini e 60 km da percorrere con le stampate di Google Maps in tasca, perché al tempo il telefono non aveva il navigatore, il tutto a una velocità massima di 45 Km/h perché il mio amico guidava un’Apecar degli anni Ottanta tutta originale. Quello lì, di Valentino e dei piloti e delle corse, era un mondo lontano non soltanto dal punto di vista geografico, era lontano per la vita che facevo: io venivo bocciato a scuola, vivevo senza prospettive future ed ero arrabbiato col mondo, oltre che lontanissimo dalla possibilità di vivere, un giorno, vicino alle moto.
Sarà che veniamo bombardati da storie di rinascita, eppure è più o meno a questa storia che penso mentre ritiro una Cupra Formentor VZ 1.5 e-HYBRID Extreme per andare al Ranch di Valentino Rossi a vedere la 100 Km dei Campioni, che nel 2025 celebra la 11° edizione con un bel leone su sfondo rosa. L’idea è stata di Pier Antonio Vianello, il boss di Cupra. Un uomo quantomeno atipico nel fitto ginepraio di personalità che lavorano nell’automotive, ambiente che a tratti sembra regolato da gente un po’ troppo attiva su LinkedIn: si parla costantemente di performance, si fanno grandi complimenti immotivati e poi si torna alla propria scrivania. Pier Antonio è diverso. Sa tutto di automobili, pure quelle d’epoca. Fa vacanze on the road, conosce a memoria il vecchio Top Gear e ha stipulato questa partnership tra Cupra e VR46. Non è che mette il nome sulla carena della MotoGP, o comunque non solo: fornisce auto a tutti i piloti dell’Academy, li porta in giro, spinge il podcast di Andrea Migno e, cosa che chiaramente ha avuto grosso impatto nello scrivere queste righe, è un estimatore di MOW. La sua idea è stata semplicissima: prendiamo una macchina e andiamo al Ranch per la Cento. Così ci siamo ritrovati a parlare di viaggi, vecchie automobili e corse in un freddissimo pomeriggio di novembre a Tavullia.
La macchina, ovvero CUPRA Formentor VZ 1.5 e-HYBRID Extreme
Te ne accorgi dai colori, dalle scelte stilistiche, dai materiali utilizzati: Cupra fa un lavoro diverso rispetto agli altri costruttori e ci è riuscita in un mercato lento e stanco, fatto di automobili tutte simili tra loro pensate da squadre di ingegneri che girano col palmare. Vedi Formentor e capisci che a pensarla è stato uno che ha giocato i vecchi Need for Speed, uno che si emoziona a sentire il motore che sale di giri. Uno che la macchina la vuole bella, veloce e fatta per bene. Uno che magari gioca a Gran Turismo nei weekend.
Nella fattispecie la vettura che abbiamo in prova ha 272CV di potenza e 400 Nm di coppia, un motore TSI da 1.5 litri combinato a un propulsore elettrico e un cambio DSG a sei rapporti. Dentro è rifinita come una cattedrale nel sud della Francia, quindi spicca per i dettagli. Ha anche i colori di un mosaico, perché l’abitacolo è circondato da barre luminose cangianti pensate per dare più carico emotivo all’ambiente. Belli i sedili sportivi con poggiatesta integrato e una trama sul guscio che riprende la fibra di carbonio, mentre il volante ha le stesse funzionalità della plancia di un aereo: oltre ai paddle per il cambio sequenziale, sono presenti i comandi dell’infotainment (da XX pollici), della strumentazione digitale con tachimetro e contagiri analogici, a cui si aggiungono due pulsanti da sportiva vera: uno a destra per l’accensione, l’altro a sinistra per scegliere una tra le quattro modalità di guida della vettura. I dettagli poi sono moltissimi, dalla sigla Formentor nascosta nei gruppi ottici posteriori al battitacco con incisione al laser, per non parlare del piccolo faro nascosto nello specchietto che proietta il logo di Cupra sull’asfalto quando sblocchiamo la macchina. E questo è il suo bel vestito, la magia sta sotto.
Guidare una macchina strettamente sportiva significa arricciare l’asfalto quando il piede batte sul pedale, ma pure prendere i dossi a velocità ciclista con la fronte imperlata di sudore e tutti i pensieri che convergono nel raffinatissimo (e altrettanto delicato) splitter anteriore, se presente. Altrimenti c’è la scocca, il fondo, qualcosa pronta a strisciarsi, rovinarsi, rompersi. Significa avere un raggio di sterzata per niente adatto alle strade e un buco nel serbatoio. Formentor è l’arte del compromesso: va forte, fortissimo anzi, eppure anche tra le campagne di Tavullia puoi tenere il piede giù senza paura di demolire un semiasse. Senti i movimenti della macchina, che però non è ballerina. La risposta al pedale è diretta e rapida perché il cambio è fatto anche per correre. Il tutto solo e sempre alla bisogna, d’altronde il motore è un sistema ibrido plug-in col quale si riesce a consumare pochissimo in città (zero, ricaricando la batteria da 19,7kWh per un’autonomia di quasi 120 km in elettrico) e a viaggiare comodi per lunghe trasferte, perché è possibile inserire il cruise control adattivo in qualunque momento. Che poi è esattamente il modo con cui ho affrontato la trasferta autostradale da Milano a Tavullia.
The factory: la VR46 di Tavullia
Esci al casello di Cattolica, fai una decina di chilometri e poi la vedi: è una rotonda come le altre, piccolina, sopra però ha piantati due cartelli gialli che indicano la direzione del centro accrediti come se fossimo in MotoGP. È la sede della VR46, un megalito giallo che a trovarlo lì sembra che qualcuno abbia teletrasportato un pezzo di Silicon Valley negli anni Sessanta. Fuori: cordoli sul marciapiede, il bilico con le MotoGP, pareti vetrate, 46 gialli grossi come piccole navi. Dentro, a volte esposte e altre stipate, ci sono moto di ogni genere, da quelle da corsa ai mezzi per il fuoristrada. Sulla parete dietro alla reception si staglia un giardino verticale che fiorisce con un 46, come a dire che il denaro per una coltivazione idroponica c’è ma il buon gusto per evitare l’opulenza anche. A fianco alle scale che portano al piano di sopra c’è una parete con tutti i risultati degni di merito (e di trofeo, quindi podi e titoli) ottenuti dai piloti dell’Academy nel corso degli anni, sono centinaia di piccoli allori. Una volta ritirato l’accredito, complicatissimo, ci viene offerta la possibilità di fare un giro per l’azienda. Impossibile rifiutare. Si salgono le scale e sopra ci sono gli uffici. L’ufficio di Alberto Tebaldi (Amministratore delegato della VR46) è forse quello arredato con più gusto, c’è tanta roba da vedere che ci perdi la vista. Uccio ha un quadro del Joker di Joaquin Phoenix appeso alla parete. La sala di Valentino invece è più pulita, sgombra. Scrivania, tavolo per le riunioni con grossa clessidra al centro e lei, la moto. Quella del mondiale 2009, bella come una moto non lo sarà mai più.
Più avanti altri uffici, la mensa, una terrazza e il dipartimento che si occupa di disegnare il merchandising. Il meglio, però, è al piano di sotto. Lì ci sono magazzini, garage, officina e reparto corse: parcheggiate con cura trovi le mille, le Ohvale, le medie e pure le moto da cross. C’è pure una stampata con Morgan che chiede dov’è Bugo, mancano solo le moto da flat track.
Il VR46 Motor Ranch
La 100 Km dei Campioni è tutto quello che manca alla MotoGP, anzi: è la MotoGP come la sognano i piloti. Partiamo dal fatto che i giornalisti nel Ranch non sono visti esattamente di buon occhio, evidentemente rovinerebbero l’atmosfera come un parcheggio multipiano alle Maldive o una recensione negativa dell’Himalaya. Così la viviamo dalla giusta distanza, cercando di non invadere i loro spazi.
E i piloti, che in tutta questa storia sono veri animali, si sentono più liberi. L’atmosfera assomiglia molto a quella di un Gran Premio, a cominciare dall’andamento delle giornate, che in questo caso sono anticipate di un giorno: giovedì giornata di prove libere, venerdì qualifiche, sprint e Americana e poi sabato c’è la 100 chilometri. Ogni volta che vedo Valentino Rossi in moto mi torna in mente lo stesso pensiero, ovvero che lui fa per gioco una cosa terribilmente seria come il correre in moto, esattamente il contrario di quello che dovrebbe essere la cucina per Gualtiero Marchesi. Oggi al Ranch ci arrivo in Cupra, che a Tavullia vuol dire VR46.
All’inizio della tortuosa stradina che porta al Ranch ci sono una quarantina di persone che aspettano Vale e altri piloti per chiedere una foto o firmare un casco. A noi vengono controllati i pass per la prima volta, cosa che succederà ancora in altre tre occasioni sulla stradina che porta al circuito, che visto dall’alto sembra dipinto da un paio di angioletti. Ci passi e pensi alla concentrazione di piloti che hanno visto quelle curve. Ai lati della strada, a un certo punto, ci sono impilate delle gomme slick, ormai diventate vasi da fiori. Passi con l’auto sotto l’arco del ranch, appeso il manubrio di una vecchia moto da speedway con la tabella 46, forse una delle prime. Fai una lunga salita tra le vigne, poi ci sono gli uliveti e il paddock. Sembra di essere tornati alla MotoGP di quarant’anni fa, almeno a sentire i racconti di chi c’era: i piloti si cambiano in furgone, chi è fortunato ha la fidanzata ad aiutare e altrimenti fai da solo. Ti porti la moto, la scaldi un po’, controlli che ci sia tutto, ti spogli lì in mezzo. Immagino che per tutti dev’essere un po’ come tornare agli inizi, quando non c’erano i soldi e nemmeno l’asfalto sotto ai piedi, figuriamoci il motorhome. I piloti sono tutti piuttosto divertiti dalla cosa. Tutta quella retorica sui bei vecchi tempi, che ha pure stufato, in questo caso esiste ed è autentica.
Passata la zona dei furgoni si arriva al Ranch vero e proprio, che quando c’è poca gente sembra di stare a Macondo a casa della famiglia Buendia,o meglio un angolo di realismo magico tra le colline italiane. E invece è la casa in cui nacque la nonna di Andrea Migno e c’è il patio, le moto sotto la tettoia e un gran casino di gente. Gli ospiti stanno in un largo recinto con l’ottimo furgoncino coi panini, il chiosco del vin brulé e quello che spina le birre, con la possibilità di vedere la pista da almeno un paio di angolazioni. Ti trovi un bel posto e stai lì, a farti ipnotizzare dalle moto che spazzolano questo che i piloti chiamano materiale, un misto tra terra e sabbia leggera sotto al quale c’è il cemento. Li vedi spazzolare le curve, giocare in equilibrio come fosse uno skate sul ferro e solfeggiare col gas. Vedi le differenze tra chi va forte e chi fa più fatica, sembra facile ma neanche troppo perché la guida è tutta in controsterzo, perdite di aderenza continua. Ti impalli a vedere. I piloti si concedono molto alla gente, passando ogni tanto per foto e autografi. Il pubblico è vasto, perché va dal grande Gianni Rolando vestito da bracconiere - come fa spesso - alla gente di paese che è venuta per vedere le moto e tutti stanno lì, rispettosi come in chiesa perché si percepisce la sacralità del luogo. Sono l’alto e il basso che si mescolano, a un certo punto arrivano anche Lucio Corsi e Cesare Cremonini. La verità però è che niente meglio dei cessi racconta l’atmosfera. All’inizio ti spiazza, poi capisci che il bagno delle donne è quello col bullone fuori dalla porta e quello degli uomini ha una vite: è una roba seria, noi però la prendiamo sul ridere.
Parlo con un tizio della sicurezza, lui stima 1500 persone tra gli ospiti e 300 circa a prestare servizio. L’organizzazione è micidiale: navette che vanno avanti e indietro, sicurezza, ambulanze, commissari di pista. Una gran fatica, anche considerando che tutto questo circo va omologato perché risulta una gara ufficiale, quindi con cronometrsti, direttore di gara e tutta una serie di personaggi della grande burocrazia delle corse per validare la gara e renderla ufficiale. Una complicazione che porta con sé almeno un paio di motivi: il primo è che in Italia non puoi fare altrimenti, c’è una legge per tutto. Il secondo è che i piloti hanno delle assicurazioni molto particolari che in caso di infortunio li coprono soltanto se stavano prendendo parte a un evento autorizzato dalla federazione. Tra un turno e l’altro passano i trattori, quattro, che a guidarli a quella velocità potresti essere periziato con una chiara infermità mentale. Il momento migliore è forse venerdì sera: è appena finita l’Americana, l’unica gara che puoi vedere a bordo pista, fa freddissimo, la gente comincia ad andarsene. Valentino chiede di correrne un’altra, perché nella prima è stato sfortunato. E così i piloti tornano in pista, tutti quanti, pare una partita di calcetto, il pubblico rimasto sarà di una quarantina di persone, manco alle gare del campionato regionale.
Una meraviglia anche la fine dell’evento, quando Lucio Corsi si mette a suonare per il pubblico del Ranch. Tornando verso casa mi chiedo chi glielo faccia fare, a Valentino Rossi, di invitare altri 45 piloti per correre una gara a casa sua, una gara che è bella ma pericolosa, in cui vince uno soltanto, che costa i soldi, che fa freddo. L’unica risposta buona è che lo fa perché gli piace. Perché è il sale della vita, come arrivare a Cavallara col cinquantino quindici anni fa. Al Ranch era tutto più comodo, più grande e più bello, dal mezzo per arrivare alle moto e all’esperienza. Il freddo e la passione invece sono li stessi e probabilmente lo saranno anche tra dieci anni.