Ve lo ricordate Valentino Rossi che lascia la Yamaha con un muro nel box dopo una gara in Giappone in cui ha messo in pista tutta la rabbia contro Jorge Lorenzo? Era il 2010, Vale aveva buttato via le possibilità di giocarsi il campionato con la frattura di tibia e perone al Mugello e nel box c’era un’aria pesante: lui adesso lo racconta col sorriso, ma quando dice che non meritava un compagno di squadra veloce e spietato come Lorenzo non sta scherzando. Rossi aveva riportato Yamaha a vincere, aveva fatto vendere interi container di moto solo con le sue gare e le sue storie. Lin Jarvis e Maio Meregalli invece erano andati a pescare quel maiorchino tutto fame e talento, una macchina. Lorenzo il tifo contro lo usava per caricarsi. Lo faceva godere, dopo aver visto 300 si sentiva come Leonida alle Termopili contro l’esercito persiano. Così Valentino passa alla Ducati, lo fa davvero. La Ducati che era di Stoner e che nella testa di Vale andava fortissimo, scoprendo piuttosto in fretta che Casey ci aveva vinto solo il primo anno, con il motore ridotto a 800cc per regolamento e l’intuizione di Livio Suppo di lavorare con Bridgestone al posto di Michelin.
Due anni durissimi, dal primo test all’ultima gara. Nel mezzo, la morte di Marco Simoncelli. Valentino aveva già l’età per smettere, era lontano dalle magie in pista dei primi Duemila. Invece è tornato in Yamaha grazie alla spinta di Dorna che non voleva rinunciare a lui e pagò parte dell’ingaggio. Più incontri con gli sponsor, niente muro nel box e una serie di condizioni che Valentino si trovò ad accettare pur di ritrovarsi su di una moto costruita per vincere. In quei due anni con Ducati si era scritto di tutto su Rossi, sul fatto che avrebbe dovuto ritirarsi, che non era veloce. Invece, nel 2013, Rossi chiude con sei podi e una vittoria in Olanda. Ducati invece, che schiera Dovizioso e Hayden, non fa meglio di un quarto posto e l’anno successivo chiama Dall’Igna a guidare la rinascita del progetto. Valentino quella volta aveva ragione: la Ducati non funzionava, lui sì. E lo ha dimostrato per almeno cinque anni, di sicuro nel 2015.
Con Marc Marquez in pista, fenomeno tanto quanto lui, non ce n’era per nessuno. Valentino cominciava a parlare dei problemi della M1, velocità massima e aderenza al posteriore su tutti, ripetendo le stesse parole ad ogni occasione. Nel 2019 Yamaha allontana il responsabile dello sviluppo della moto, Kouji Tsuya, che aveva cominciato a lavorarci nel 2017. Ma Rossi nel 2019 sta già pensando al ritiro e Vinales, che era partito fortissimo due anni prima, cambia numero (dal 25 al 12) in un tentativo disperato di invertire la tendenza. Oggi Maverick se n’è andato in preda al nervosismo e Fabio Quartararo sta per fare lo stesso nonostante il titolo vinto l’anno scorso. Franco Morbidelli si sta giocando la carriera, perché arrivare in fondo con una moto ufficiale è così inverosimile che si fa fatica a dare la colpa alla moto. Invece è così: Quartararo ha la fortuna di potersene andare, gli altri (Dovizioso, Morbidelli e Binder) stanno affondando con la Yamaha. Ecco, Valentino Rossi aveva ragione e bisogna ricordarselo almeno un po’. La moto dello scorso anno non andava, non era adatta, serviva un miracolo e Quartararo ha dimostrato di saperlo fare. Ma la Yamaha di oggi è come la Ducati di dieci anni fa, un miracolo o niente, la rivoluzione o l'abisso. Valentino Rossi, con 43 anni addosso e un quarto di secolo nel mondiale, ha fatto bene ad andarsene, tentare un’altra moto sarebbe stato un azzardo, l'ennesimo: per capire un progetto nuovo non basta un anno. Continuare a correre in cerca di un podio avrebbe significato farlo per altri tre, quattro anni. E quello sì, era troppo. Tra lui e la Yamaha però, il problema grosso era la Yamaha. Ecco perché ha continuato così a lungo, non credeva nemmeno lui di non essere più capace. Così come fanno bene a non crederci i piloti Yamaha di adesso, da Morbidelli a Quartararo. La strada per uscirne però è lunga, e soprattuto serve uno stravolgimento a cui i giapponesi non sono abituati.