Una delle più grandi consolazioni di questa vita sono i trionfi sportivi, ma una delle consolazioni ancora maggiori di questa vita, per chi scrive, sono i trionfi dopo i tonfi. È un incipit piacione e manzoniano, lo so, ma lasciatemi spiegare. In questo mondo che rotola, lo sport, nelle sue manifestazioni supreme, riesce ancora a raccontare come poche altre cose un’umanità che nulla invidia al divino o, almeno, all’idea, sempre umanamente generata, che del divino ci siamo fatti noi finite creature. L’ambizione e la fortuna di raggiungere una quasi perfezione sfiora, però, soltanto pochissimi eletti baciati dal talento, dal destino o chi lo sa. Alla stragrande maggioranza, invece, tocca accontentarsi di godere delle invenzioni dei suddetti, anonimi spettatori sugli spalti gremiti, pronti a esaltare le gesta di solitari eroi in un’arena. Queste imprese si compongono a loro volta di gesti epici. La subacquea di Michael Phelps, il rovescio a una mano di Roger Federer, il rilascio di Carmelo Anthony, la frustata di Paola Egonu, il colpo di pedale di Matieu Van Der Poel sono alcuni tra le mille meraviglie che si potrebbero citare. Si è da poco aggiunto, a una lista personale e in continuo divenire, l’ennesimo sbalordimento da parte di una delle atlete più straordinarie con la quale noi, tifosi innamorati e gioiosi in quello stadio, abbiamo la fortuna di convivere oggi: Simone Biles. Ai campionati Mondiali di Anversa infatti la strepitosa ginnasta americana è riuscita a completare lo “Yurchenko doppio carpio”, che soltanto pronunciarlo corretto comporta tachicardie e arrotolamenti linguali da pretendere settimane di mutua, ma che tecnicamente significa: una rondata per lanciare una rincorsa di 25 metri che porta dalla pedana rimbalzante alla tavola del volteggio con un doppio flick flack, ovvero un ribaltamento indietro che lancia l’atleta nell’iperuranio e le consente di compiere una doppia rotazione a gambe tese dopo la quale atterrare leggera sul materassino. Un gesto, appunto, di quelli che spostano il limite un po’ più in là. Un movimento che fino a ieri l’altro era appannaggio degli uomini e che ora porta il suo nome "Biles II", prima donna di sempre a riuscirci. Una volta di più consegnata all’immortalità.
Semplice, giusto? Ovviamente no, direte voi. Bravi, risponderò io, avete ragione. Ma ancora più difficile è essere riuscita a farlo, quel balzo, a dieci anni dal primo trionfo mondiale, nella stessa Anversa del 2013, dopo avere stipato nei cassetti di casa 25 medaglie iridate di cui 19 d'oro, 4 ori olimpici e una dichiarazione di fragilità che ha reso Simone Biles ancora più bella, ancora più invincibile: quella dei giochi di Tokyo 2021. Quando qualcosa nel suo volo di cuore e di anima si è bloccato a metà nell’aria giapponese, il mondo in platea ha capito che persino a spalle del genere non si può chiedere di reggere tutto il peso delle aspettative di perfezione. Perché nessuno come l’eroe sa quanto sia difficile essere il numero uno. Dunque, uno stop, lo smarrimento, la ricerca della gioia e del divertimento perduti in pedana, consapevole che sarebbero potuti non tornare. Eppure, è tornato tutto, grazie al cielo. Quello stesso cielo che è unico limite per chi, come Biles, abbia scelto di volare. Non doveva dimostrare più nulla colei che già da tempo è la più grande di sempre, ma come non essere felici di questi ritorni che ci allungano il divertimento, ci allungano la vita? Grazie per averci fatto sentire simili a te, Simone, per qualche tempo confusa nell’anonimato della folla sugli spalti della vita; ogni tanto sentirsi normali agli Dei fa bene, tanto quanto è fondamentale per noi comuni mortali sentirsi speciali. Ora, però, è tempo di tornare al centro dell’arena, a impolverarti i calzari, quello è il tuo posto. Lascia a noi l'onore di applaudirti e di raccontare di quella volta che ci hai permesso di osservarti da vicino dimostrandoci che non sei poi così diversa da noi. Siamo simili, è vero. Però tu voli.