“No, non verrò a TavulliaVale, perché io Valentino Rossi voglio continuare a guardarlo come ho fatto sempre, come si guarda il sole: abbagliato, da lontano e commosso”. E’ la frase di un giornalista fuori dalla sala stampa del Marco Simoncelli World Circuit, a Misano. Una frase buttata là mentre in molti, finita la conferenza stampa dei piloti, correvano via per arrivare in tempo all’altro evento di giornata: la consegna delle chiavi della città di Tavullia a Valentino Rossi. E è come se quella frase, ascoltata poco prima, avesse riassunto già alla perfezione tutto quello che sarebbe successo poco dopo. Proprio a Tavullia, in mezzo a quella piazza e a quelle vie che hanno fatto una fatica tremenda a contenere le migliaia di persone che, invece, hanno scelto di esserci.
Una storia, quella di Valentino Rossi, raccontata su un palco che poi è bastato da solo a rendere speciale la storia stessa. Nonostante la conoscessimo già. Nonostante ci sia stata proposta in tutti i modi possibili. In tutti i mondi possibili, ma non da dentro quella stessa culla in cui s’è sviluppata. Tavullia, appunto. Un luogo che, ormai lo ha ammesso anche Valentino Rossi, è stato anche il segreto di un campione, di un personaggio e, adesso, pure di un padre. “Io in verità non sono nato a Tavullia, ma a Pesaro, perché qua mica c’era l’ospedale. Però qua ci sono venuto quando avevo più o meno un anno, nella casa di Graziano, che è là vicino al Ranch” – Alza l’indice Valentino Rossi e indica una direzione, come se il Ranch adesso fosse monumento stesso di quella cittadina in cui è cresciuto. E da cui non è mai voluto andare via, neanche quando il ritornarci troppo spesso gli è costato caro.
Tavullia è stata il segreto perché ha avuto quella dimensione e quella misura tale in cui si chiude anche l’occhio, quando serve. Lo hanno fatto anche con lui, nonostante lui non lo sapesse ancora. E a raccontarlo è stato suo babbo Graziano, salito sul palco con la solita camicia di tre taglie più grandi, l’impaccio di uno stravagante che però di fondo è timido da matti e l’orgoglio di un padre che sembrava mezzo matto e invece guarda un po’ che t’ha tirato fuori. “Io penso di aver preso la follia di Graziano e il pragmatismo di Stefania, sono un po’ un mix, dai!”. Un mix di cui fa parte e è stato parte anche quel vivere in provincia che – per certi versi e purtroppo solo per quelli - permette un po’ di più. Come, ad esempio, ritrovarsi legato a venti metri di corda quando hai circa 4 anni e sei al volante di una piccola Lotus a pedali, mentre tuo babbo dall’altro capo, in sella a una moto, ti trascina in traversi che Telefono Azzurro scansati. Traversi è la parola. Traversi è la religione. Traversi è la chiave. Non come qualcosa che va storto, ma come qualcosa che si diventa capaci di controllare, proprio mentre va storto. Vivere in provincia, alla fine, è questa roba qua: far andare tutto nella stessa direzione in cui vanno le cose a quelli per cui è tutto più facile. Quelli delle città, o meglio ancora delle metropoli.
Come? Essendo famiglia. Che però in provincia non è mica inteso solo come nucleo stretto di babbi, mamme e figli. In provincia “essere famiglia” è il paese tutto. Perché chiude gli occhi mentre dai di matto. Perché ti assolve mentre apri il gas come un suonato con il motorino o con l’Ape. Perché ti coccola e ti sprona mentre provi a fare qualcosa. Quel vivere in provincia per Valentino Rossi s’è fatto presupposto indispensabile, al punto che quando se ne è andato ha fatto ciò che si fa quando – come si fa in paese quando ci si presta qualcosa, magari l’auto o un furgone – ha preferito lasciare il pieno piuttosto che il vuoto. Cioè, da dire così sembra un po’ una contraddizione, ma Valentino Rossi è stato capace di una roba che riesce a pochi: ha lasciato il vuoto dopo aver fatto il pieno. Che significa? Significa che ha detto “basta con le corse in moto” quando alle corse in moto e a tutti gli appassionati aveva già garantito che ci sarebbe stato qualcun altro dopo di lui. Proprio come si va in provincia, appunto, quando il vicino di casa ti presta magari il furgone e glielo riporti lavato e con il pieno. Il pieno dopo Valentino Rossi stava pure ieri sul palco di Tavullia. Si chiama Pecco Bagnaia, si chiama Franco Morbidelli, si chiama Luca Marini o Marco Bezzecchi. Si chiama, ancora, un team che è già di primissimo livello e una storia che continua. Ma si chiama, soprattutto, capacità di scoprire sempre una meraviglia nuova, come succede sempre a quelli di provincia che ce l’hanno un po’ nel sangue di emozionarsi quando succede qualcosa dove non succede mai niente. A Tavullia, in verità, succede qualcosa da ormai tre decenni e quasi sempre perché c’è di mezzo Valentino Rossi. Ma la capacità di meravigliarsi è rimasta ancora. E a spiegarcelo – con una sorta di ingenua potenza che è stata commovente davvero – è stato proprio Valentino Rossi. “Io ero curiosi di vedere quanta gente ci fosse. Ho smesso da ormai tre anni e mica ci pensavo che Tavullia fosse così piena, sono contento davvero”. Chiamarsi Valentino Rossi e meravigliarsi ancora. Con quella leggerezza lì e l’aria anche un po’ scanzonata di chi sente che tutto, anche i meriti dell’essere diventato leggenda, sono da dividere con qualcun altro. Quei “qualcun altro” ieri c’erano tutti, dentro quella Tavullia che ieri gli ha simbolicamente donato le sue chiavi mandando contestualmente un messaggio al mondo: saremo ancora palcoscenico…orgogliosamente di provincia.